Pagina:Piccole storie e grandi ragioni della nostra guerra.djvu/9

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Il ragazzo è un pezzo d’omone, che ha tre o quattr’anni più del suo tenente, ma gli vuol bene come ad un buon papà giovane giovane, ed il Tenente vuol bene a lui come ad un vero figliuolo.

— Non ne posso più, signor Tenente! Mi faccia la carità di mandarmi via di qui! Non ci reggo: ho paura di fare uno sproposito. Mi mandi in trincea, chè almeno li faticherò, ma quieto; farò il mio dovere, ma senza mangiarmi l’anima dalla rabbia. Mi mandi dove vuole, signor Tenente, ma non con questa razza di boriosi, che ci trattano d’alto in basso, che ci disprezzano, che ci sputano in faccia; e pazienza offender noi, ma offendono la nostra Patria, capisce, offendono l’Italia, dove sono trattati.... come sono trattati!....

— Abbi pazienza, ragazzo; non ci badare. Che vuoi che importi quello che dicono o quello che pensano?

— Pazienza, pazienza.... Fa presto a dire, Lei, signor Tenente, che non istà qui tutto il giorno con questa canaglia! Ma io che porto loro da mangiare, io che debbo servirli di tutto punto e intanto li vedo e li sento e mi mordo le mani.... Ah, ma non hanno da essere nemici liberi come tutti gli altri, da poterli caricare alla baionetta! Se una volta mi viene tra i piedi libero quello, per esempio, quello laggiù in fondo, che dà del «porco taliano» a destra e a sinistra, lo vede lui se non lo infilzo! Ma ho la disgrazia che è qui nelle mie mani, e non gli posso torcere un capello....

— Sicuro ch’è nelle tue mani, — dice il Tenente, che un po’ ha voglia di ridere, un po’ è commosso: — Anzi, quello lì lo affido particolarmente a te. Tanto, con gli altri, per fortuna, non vi capite che a gesti.... Ma vedi com’è, ragazzo mio; noi eravamo persone civili, noi eravamo padroni del mondo, quando loro nemmeno sapevano che