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106 | capitolo v |
serviva «el Controlòr» come una schiava, con gran timore eppure non senza affetto. Quando non lo chiamava «el Controlòr» lo chiamava «Pasott». Mai non si permise appellativi più familiari.
Pasotti le ordinò a gesti, con una faccia dura da satrapo, di levar dal cassettone una camicia di bucato, dall’armadio un abito di mezza gala, da un canterano un paio di stivali; e quando sua moglie, frugando di qua e di là, trepidando, voltandosi ogni momento per seguir gli occhi e i gesti del padrone, pigliandosi spesso della bestia e spalancando allora la bocca per cercar di udire la parola veduta, ebbe approntato ogni cosa, Pasotti cacciò le gambe dal letto e disse:
«Togli.»
La signora Barborin gli s’inginocchiò davanti e cominciò a tirargli su le calze, mentre il Controllore, allungata la mano al tavolino da notte, si pigliò la tabacchiera e, apertala, continuò, con due dita affondate nel tabacco, le meditazioni di prima. Intendeva di fare alcune visite di esplorazione, ma in quale ordine? A quanto gliene aveva detto il suo mezzadro, pareva che la Marianna del signor Giacomo Puttini e forse il signor Giacomo stesso dovessero saper qualche cosa di don Franco; e qualche cosa certo se ne doveva sapere a Castello. Mentre la signora Barborin gli allacciava il secondo legaccio, Pasotti si ricordò ch’era martedì. Il signor Giacomo andava ogni martedì con altri amici al mercato di Lugano e più propriamente alla trattoria