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110 | capitolo v |
dienza, prima trattenendolo addirittura per le braccia e poi protestando di volergli veder prendere due o tre di quei mostri di cavedini; e don Giuseppe, per quanto protestasse alla sua volta: «oh dess! Se ciapa nient! Hin baloss! Hin caveden! ga veden!» dovette gittar l’amo. Pasotti finse sulle prime di stare attento e poi gittò egli pure il suo.
Cominciò con domandare a don Giuseppe da quanto tempo non fosse andato a Castello. Udito che vi era stato il giorno primo a salutar l’amico curato Introini, il buon Tartufo, che non poteva soffrire l’Introini, si mise a farne il panegirico. Che perla quel curato di Castello! Che cuor d’oro! E a casa Rigey c’era andato, don Giuseppe? No, la signora Teresa stava troppo male. Altri panegirici, della signora Teresa e di Luisa. Che rare creature! Che saggezza, che nobiltà, che sentimento! E l’affare Maironi? Andava avanti, non è vero? Molto avanti?
«So nient so nient so nient!» fece bruscamente don Giuseppe.
A quel precipitoso negare gli occhi di Pasotti brillarono. Egli fece un passo avanti. Era impossibile che don Giuseppe non sapesse niente, diavolo! Era impossibile che non avesse parlato di ciò con l’Introini! Non lo sapeva l’Introini, che don Franco aveva passato la notte in casa Rigey?
«So nient» ripetè don Giuseppe.
Pasotti sentenziò allora che il voler nascondere certe cose note era un far pensar male. Diamine!