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208 parte ii - capitolo iii

«Meglio!» fece l’ingegnere, assai contento che si troncasse quel dialogo.

Nel passar dalla sala nel giardinetto il Commissario prese familiarmente il braccio di Franco e gli disse all’orecchio; «Ha ragione, sa, dell’ingratitudine ma certe cose noi impiegati non le possiamo dire.» Franco, a cui il tocco della I. R. mano bruciava, fu sorpreso di questa uscita. Se colui avesse avuto una faccia più italiana, gli avrebbe creduto; con quella faccia calmucca non gli credette e lasciò cader il discorso. Lo ripigliò l’altro, sotto voce, affacciandosi alla ringhiera verso il lago e fingendo di guardar il ficus repens che veste la muraglia.

«Si guardi anche Lei,» diss’egli «da certe parole. C’è delle bestie che possono interpretar male.» E accennò leggermente col capo al Ricevitore. «Se ne guardi, se ne guardi.» «Grazie» rispose Franco, asciutto «ma non credo che avrò bisogno di guardarmi.» «Non si sa, non si sa, non si sa,» sussurrò il Commissario, e toltosi di là, andò, seguito da Franco, dove il Ricevitore e l’ingegnere discorrevano di tinche presso la scaletta che scende al secondo ripiano del giardinetto.

Lì presso c’era il famoso vaso rosso di gelsomini.

«Questo rosso sta male, signor Maironi» disse il bestione ex abrupto, e diede un colpo all’aria con la mano come per dire «via!» In quel momento Luisa si affacciò al giardino dalla sala e