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138 capitolo terzo.

Quaiotto raccolse, per disgrazia, l’interruzione. Cos’erano cinque, sei, ottomila lire per un bilancio di milioni? Fino a che il pallone della sua rettorica aveva navigato le nubi i colleghi erano stati a guardarlo col naso all’aria, ma quando toccò terra, e s’impigliò fra le cifre, gli corsero, come avviene agli aeronauti, tutti addosso. In fondo la maggioranza della maggioranza, gente pacifica, più penetrata di un malinteso dovere religioso che di passione politica, fedele anche nell’azione pubblica alle vecchie tradizioni delle buone creanze private, subiva il demagogo Quaiotto ma non lo amava. Fu un subisso di proteste. Che cinque! Che sei! Che otto! Quaiotto si voltò inferocito sfidando l’assemblea. Due o tre colleghi, i finanzieri del partito, gli tennero testa. Gli altri si sfogarono fra loro contro le violenze di colui che minacciava di guastar le uova tanto bene accomodate nel paniere del dottor Záupa. E poichè Quaiotto e i suoi contraddittori disputavano in piedi con un baccano del diavolo, si fecero essi pure addosso allo smarrito presidente, gli predicarono di tener duro, duro, duro, di non permettere che si parlasse di scandali privati. L’uomo acido porse un orecchio nel gruppo. “Benon!„ diss’egli ritraendosi. “Il sindaco rompe e i pori cani dei impiegati paga„. Intanto Quaiotto e i suoi