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444 capitolo ottavo.

gine dell’astro imbiancando la neve degli oleandri in fiore, fogliami e rose, la ghiaia del viale, l’alto fianco della chiesetta di Oria, il vecchio rustico campanile imminente all’orto. Era una notte inquieta nel cielo come sulla terra; e anche il colloquio sotto il pino era interrotto da silenzi pieni di aspettazione, agitato da repentini soffi dello Spirito, illuminato da qualche cosa di nascosto che ora traspariva ora si ritraeva. Don Giuseppe di tratto in tratto pareva accasciato sotto un gran peso, oscurato nell’anima; di tratto in tratto si trasfigurava, si rialzava tutto acceso la gran fronte, gli occhi, l’accento, il gesto. Il contegno di Piero era invece costantemente grave; il fuoco de’ suoi occhi ardenti pareva più interno, le parole avevano un che di pacato e di fermo, affatto nuovo in lui. Sempre, quando tacevan le cose, don Giuseppe era il primo a rompere il silenzio in cui egli e Piero si accordavano quando esse rumoreggiavan più forte nel vento. E allora era quasi sempre una specie di soliloquio che gli usciva di bocca, un cruccioso ritorno del pensiero alle difficoltà di certo còmpito accettato irrevocabilmente, oramai. Cinque ore prima, mediante un atto rogato dal notaio di Porlezza, Piero gli aveva ceduto tutti i suoi beni; e la intelligenza fra loro era che don Giuseppe si sarebbe associate certe persone già designategli, le quali