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Che più? Se il Teatro Italiano si arricchisce di nuove pregiate produzione, lo si deve in parte ancora ai primi saggi fatti da varii scrittori drammatici in dialetto Torinese e Milanese, intantochè il popolo, che meglio assai si vede ritratto sulle scene ove si parla il suo linguaggio, vi accorre in maggior folla, e ne ricava utilissimi ammaestramenti.

Accettiamo adunque i dialetti come una necessità; e nel mentre per mezzo della istruzione sempreppiù diffusa cogli Asili Infantili e le scuole elementari fatte in qualche modo obbligatorie, si cercherà di rendere viemmeglio popolare la lingua italiana, lasciamo alle genti campagnuole e alle classi inferiori il quotidiano uso dei dialetti, saggiamente temperati, per quanto si può, da norme precise e invariabili per la pronunzia e per l’ortografia.

Ma e chi vorrà egli assumersi l’incarico di prescrivere queste regole col farsi giudice del modo migliore di scrivere e parlare il dialetto Piemontese? Non io per certo l’oserei, se non m’avessi già la via tracciata dalla Grammatica del Dottore Maurizio Pipino, stata da lui pubblicata, or volge quasi un secolo, cioè nel 1783, in questa città, la quale ora mi accingo a ristampare, valendomi pure del sussidio del pregevolissimo Dizionario Italiano-Piemontese del Cav. Vittorio di Sant’Albino1, per introdurre alcune modificazioni che io credo indispensabili a fine di semplificare viemmeglio l’ortografia, solo mezzo per farla più facilmente adottare.

E le modificazioni sono le seguenti:

Oltre l’e muta, la quale vuolsi indicare con segno speciale, il Pipino distingue ancora due altre e delle quali una chiama chiusa e l’altra aperta, indicando questa con due puntini sopra, per far conoscere la brevissima differenza che corre nel suono tra Re, fedel, ecc., e invern, etern. Io seguendo il sistema del Sant’Al-

  1. Torino 1859, Dalla Società L’Unione Tipografico-Editrice, già Pomba.