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di qua e di là, continuamente. Quella corsa era tradizionale: senz’essa la festa avrebbe perduto tutto il brio e il carattere. Ciascuno però temeva di restarne schiacciato.

Squillò innanzi alla chiesa stridulamente un campanello. Allora, tra le poderose stanghe della bara s’impegnò una zuffa tra i pescatori che dovevano caricarsela su le spalle. A ogni tappa, lungo la via, si ripeteva quella zuffa, sedata a stento ogni volta dai festaioli che dirigevano la processione.

Cento teste sanguigne, scarmigliate, da energumeni, si cacciarono tra le stanghe della macchina, avanti e dietro. Era un groviglio di nerborute braccia nude, paonazze, tra camicie strappate, facce grondanti sudore a rivi, tra mugolìi e aneliti angosciosi, spalle schiacciate sotto la stanga ferrata, mani nodose, ferocemente aggrappate al legno. E ciascuno di quei furibondi, sotto l’immane carico, invaso dalla pazzia di soffrire quanto più gli fosse possibile, per amore dei santi, tirava a sé la bara, e così le forze si escludevano, e i santi andavano com’ebbri tra la folla che spingeva urlando selvaggiamente.

A ogni breve tappa, dopo una corsa, dai balconi, dalle finestre gremite, alcune femmine buttavano per divozione sul fèrcolo e su la folla, da canestri, da ceste, fette di pan nero, spugnoso. E, sotto, la folla s’azzuffava per ghermirle. Nel