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un grillo e precipitarsi dietro il cappello sparito in un attimo tra le foglie, nel turbine.
— Lascialo, Fifo! — gli gridò la moglie.
Ma anche don Fifo sparve nel turbine delle foglie, nel bujo.
— Di qua, di qua! — disse la Juè a Marta, scantonando per via Protonotaro, che non imboccava il vento e in cui una moltitudine di foglie s’era rifugiata. — Andrà a ripigliarsi il cappello a Porta Felice, se pure lo arriva! Ci voleva anche questa, ci voleva!
Traversarono la piazzetta dell’Origlione, e presto furono in via Benfratelli.
— Ecco, entri, è qua, — riprese la Juè, cacciandosi in un portoncino.
Salirono la scala erta e stretta al bujo, fino all’ultimo piano. La Juè trasse dalla tasca una grossa chiave, vi soffiò nel buco, cercò a tasto la serratura e sfermò la porticina. Subito, aprendo, gridò:
— Gesummaria! Le finestre!
Le tre stanze, che componevano la miserrima dimora della moribonda, erano invase dal vento che aveva sforzate le imposte e rotto i vetri. La candela nella camera da letto s’era spenta, e nel bujo rantolava spaventata Fana Pentàgora.
— I vetri! anche i vetri.... tutti rotti! A voi l’offro, Signore, in penitenza de’ miei peccati!...