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112 parte prima

quanto vi può esser di comico in essi è superato dal tragico del suo furore.

Don Quijote è matto anche lui; ma è un matto che non si spoglia; è un matto anzi che si veste, si maschera di quell’apparato leggendario e, così mascherato, muove con la massima serietà verso le sue ridicole avventure.

Quella nudità e questa mascheratura sono i segni più manifesti della loro follia. Quella, nella sua tragicità, ha del comico; questa ha del tragico nella sua comicità. Noi però non ridiamo dei furori di quel nudo; ridiamo delle prodezze di questo mascherato, ma pur sentiamo che quanto vi è di tragico in lui non è del tutto annientato dal comico della sua mascheratura, così come il comico di quella nudità è annientato dal tragico della furibonda passione. Sentiamo insomma che qui il comico è anche superato, non però dal tragico, ma attraverso il comico stesso.1 Noi commiseriamo ridendo, o ridiamo commiserando.

Come è riuscito il poeta a ottenere questo effetto?

Per conto mio, non so proprio capacitarmi che l’ingegnoso gentiluomo Don Quijote sia nato en un lugar de la Mancha, e non piuttosto in Alcalá de Henáres nell’anno 1547. Non so capacitarmi che la famosa battaglia di Lepanto, che doveva, come tante magnanime imprese della cavalleria strepitosamente apparecchiate,


  1. Applico qui la formula del Lipps che definisce appunto l’umorismo: «Erhabenheit in der Komik und durch dieselbe» (vedi Op. cit., pag. 243). Ma come si spiega questo superamento del comico attraverso il comico stesso? La spiegazione che dà il Lipps non mi sembra accettabile per quelle stesse ragioni che infirmano tutta la sua teoria estetica. Vedi su questa la critica del Croce nella seconda parte della sua Estetica, pag. 434.