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28 | parte prima |
Ma questo lo aveva già detto, se non c’inganniamo, fin dal tempo dei tempi, Salomone. Accrescimento di scienza, accrescimento di dolore. E aveva proprio ragione, fin dal tempo dei tempi, Salomone? Sta a vedere. Se le passioni, quanto più si afforzano e si affinano, tanto più acquistano una specie d’attrazione e di compenetrazione scambievole; se con l’ajuto della fantasia e dei sensi noi ci inoltriamo, come dicono, in un «processo d’universalizzazione» che si fa sempre più rapido e sempre più invadente, sicchè in un dolore ci par di sentire più dolori, tutti i dolori, soffriamo noi per questo veramente di più? No: perchè questo accrescimento, se mai, è a scapito dell’intensità. E ben per questo il Leopardi notava acutamente che il dolore antico era un dolor disperato, come suol essere in natura, com’è ancora nei popoli barbari e semiselvaggi o nelle genti della campagna, senza il conforto cioè della sensibilità, senza la dolce rassegnazione alle sventure.
Facilmente oggi a gli occhi nostri, se crediamo d’essere infelici, il mondo si converte in un teatro d’universale infelicità? Vuol dire che, invece di sprofondarci nel nostro proprio dolore, noi lo allarghiamo, lo diffondiamo nell’universo. Ci strappiamo la spina, e ci avvolgiamo in una nuvola nera. Cresce la noja, ma si spunta e si attenua il dolore. Però, ecco, e quel tal tedio della vita dei contemporanei di Lucrezio? e quella tal tristezza misantropica di Timone?
Oh via! è proprio inutile sfoggiare esempii e citazioni. Sono questioni, disquisizioni, argomentazioni accademiche. L’umanità passata non c’è bisogno di cercarla lontano: è sempre in noi, tal quale. Possiamo tutt’al più ammettere che oggi, per questa — se vuolsi — cresciuta sensibilità e per il progresso (ahimè) della civiltà, siano più comuni quelle disposizioni di spirito, quelle condizioni di vita più favorevoli al fenomeno