Pagina:Pirandello - Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Firenze, Bemporad, 1925.djvu/232

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— Non sta più qui?

— Ma io non so di che donna Rosa mi andate parlando. Qui non ci sta. Qui ci sta Pèrsico, don Filippo, il cavaliere.

— Ha moglie? Donna Duccella?

— Nossignore. È vedovo. Sta in città.

— Qui allora non c’è nessuno?

— Ci sono io, Nicola Tavuso, il giardiniere. —

I fiori delle due siepi lungo il vialetto d’entrata, rossi, gialli, bianchi, erano immobili e come smaltati nell’aria limpida silenziosa, stillanti ancora della recente annaffiatura. Fiori nati jeri, ma su quelle siepi antiche. Li guardai: mi sconfortarono; dicevano che veramente c’era Tavuso lì adesso, per loro, che li annaffiava bene ogni mattina, e glien’erano grati: freschi, senza odore, ridenti di tutte quelle stille d’acqua.

Per fortuna, sopravvenne una vecchia contadina, popputa ventruta fiancuta, enorme sotto una grossa cesta d’erbaggi, con un occhio chiuso gravato dalla pàlpebra gonfia e rossa, e l’altro vivo vivo, limpido, cilestre, invetrato di lagrime.

— Donna Rosa? Vih! la padrona antica... Tant’anni che non ci sta più... Viva, sissignore, poverella, come no? Vecchierella... con la nipote, sissignore... donna Duccella, sissignore... Buona gente! tutta di Dio... Non ha voluto mondo, niente... Qui la casa l’hanno venduta, sissignore, da tant’anni a don Filippo ’u sùrice...

— Pèrsico, il cavaliere.

— Andate, don Nicò, che don Filippo è conosciuto! Ne’, signo’, voi venite con me, che vi ci porto io da donna Rosa, accosto alla Chiesa Nuova. —