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sono, lo lasciò padrone a Perugia di una tipografia ricca di macchine e di caratteri e bene avviata. Di’ tu, amico mio, che ne facesti, per consacrarti al culto del tuo Dio? —
L’uomo rimase a guardare Simone Pau, come se non avesse compreso la domanda.
Simone Pau gliela chiarì:
— Che ne facesti, della tua tipografia? —
Quegli allora scattò in un gesto di noncuranza sdegnosa.
— La trascurò, — disse, per spiegare quel gesto, Simone Pau. — La trascurò fino al punto di ridursi al lastrico. E allora, col suo violino sotto il braccio, se ne venne a Roma. Ora non suona più da un pezzo, perchè crede di non poter più sonare, dopo quanto gli è accaduto. Ma fino a qualche tempo fa, sonava nelle osterie. Nelle osterie si beve; e lui prima sonava, poi beveva. Sonava divinamente; più divinamente sonava, e più beveva; così che spesso era costretto a mettere in pegno il suo Dio, il suo violino. E allora si presentava in qualche tipografia per trovar lavoro: metteva insieme a poco a poco quel tanto che gli bisognava per spegnare il violino, e ritornava a sonare nelle osterie. Ma senti che cosa gli capitò una volta, per cui... capisci? gli si è un po’ alterata la... la... non diciamo ragione, per carità, diciamo concezione della vita. Insacca, insacca, amico mio, il tuo strumento: so che ti fa male, se io lo dico, mentre tu hai il tuo violino scoperto. —
L’uomo accennò più volte di sì, gravemente, col capo arruffato, e rinfoderò il violino.
— Gli capitò questo — seguitò Simone Pau. —