Pagina:Pirandello - Uno nessuno e centomila, Milano, Mondadori, 1936.djvu/145

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§ 2. Il riso di Dida.


M’ero, mogio mogio, rinchioccito tra le gonnelle di Dida, dentro la sorda tranquilla e oziosa stupidità del suo Gengè, perchè apparisse chiaro non pure a lei ma a tutti che, se si voleva proprio tenere in conto di pazzia l’atto da me commesso, fosse ritenuto come una pazzia di quel Gengè là, vale a dire piuttosto un vaporoso e momentaneo capriccio da innocuo sciocco.

E intanto alle sgridate ch’ella gli dava, a quel suo Gengè, io mi sentivo ora finir lo stomaco da un avvilimento che non so ridire, ora crepare in corpo da certe risate che non sapevo come trattenere, per l’aspetto che pur dovevo conservare a lui, non già compunto, Dio liberi! ma anzi da cocciuto che non si voleva dare al tutto per vinto, anche riconoscendo che, sì, l’aveva fatta un po’ troppo grossa. E la paura, nello stesso tempo, che all’improvviso, non più contenuta, s’affacciasse da quegli occhi a spiarla di traverso, o prorompesse da quella bocca in qualche orribile grido l’atroce disperazione della mia angoscia segreta e inconfessabile.

Ah, inconfessabile, inconfessabile, perchè solo del mio spirito, quell’angoscia, fuori d’ogni forma che