Pagina:Pirandello - Uno nessuno e centomila, Milano, Mondadori, 1936.djvu/88

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cando la voce da un silenzio che mi parve fuori della vita, perchè, ombra davanti a mia moglie, non sapevo più donde io — io come io — le parlassi.

— Che dici? — ripetè lei, dalla solidità certa della sua vita, con quell’abito color isabella sul braccio.

E com’io non risposi, mi venne avanti, mi prese per le braccia e mi soffiò sugli occhi, come a cancellarvi uno sguardo che non era più di Gengè, di quel Gengè il quale ella sapeva che al pari di lei doveva fingere di non conoscere come in paese si traducesse il nome della professione di mio padre.

Ma non ero peggio di mio padre, io? Ah Mio padre almeno lavorava... Ma io! Che facevo io? Il buon figliuolo feroce. Il buon figliuolo che parlava di cose aliene (bizzarre anche): della scoperta del naso che mi pendeva verso destra: oppure dell’altra faccia della luna; mentre la così detta banca di mio padre, per opera dei due fidati amici Firbo e Quantorzo, seguitava a lavorare, prosperava. C’erano anche socii minori, nella banca, e anche i due fidati amici vi erano — come si dice — cointeressati, e tutto andava a gonfie vele senza ch’io me n’impicciassi punto, voluto bene da tutti quei consocii, da Quantorzo, come un figliuolo, da Firbo come un fratello; i quali tutti sapevano che con me era inutile parlar d’affari e che bastava di tanto in tanto chiamarmi a firmare; firmavo e quest’era tutto. Non tutto, perchè anche di tanto in tanto qualcuno veniva a pregarmi d’accompagnarlo a Firbo o a Quantorzo con un bigliettino di raccomandazione; già! e io allora gli scoprivo sul