Pagina:Pirandello - Uno nessuno e centomila, Milano, Mondadori, 1936.djvu/90

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Ma con qual diritto ne parlo? con qual diritto do qui aspetto e voce ad altri fuori di me? Che ne so io? Come posso parlarne? Li vedo da fuori, e naturalmente quali sono per me, cioè in una forma nella quale certo essi non si riconoscerebbero. E non faccio dunque agli altri lo stesso torto di cui tanto mi lamento io?

Sì, certo; ma con la piccola differenza delle fissazioni, di cui ho già parlato in principio; di quel certo modo in cui ciascuno si vuole, costruendosi così o così, secondo come si vede e sinceramente crede di essere, non solo per sè, ma anche per gli altri. Presunzione, comunque, di cui bisogna pagar la pena.

Ma voi, lo so, non vi volete ancora arrendere ed esclamate:

— E i fatti? Oh, perdio, e non ci sono i dati di fatto? —

— Sì, che ci sono. —

Nascere è un fatto. Nascere in un tempo anzichè in un altro, ve l’ho già detto; e da questo o da quel padre, e in questa o quella condizione; nascere maschio o femmina; in Lapponia o nel centro dell’Africa; e bello o brutto; con la gobba o senza gobba: fatti. E anche se perdete un occhio, è un fatto; e potete anche perderli tutti e due, e se siete pittore è il peggior fatto che vi possa capitare.

Tempo, spazio, necessità. Sorte, fortuna, casi: trappole tutte della vita. Volete essere? C’è questo. In astratto non si è. Bisogna che s’intrappoli l’essere in una forma, e per alcun tempo si finisca in essa, qua