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Pagina:Poemetti italiani, vol. III.djvu/10

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     Gli archi di bel musaico, e le sue logge
Superbe, e i palchi affisi a Parii marmi,
Difendean da l’arsura e da le pioggie
Quei, ch’in mano d’amor rese avean l’armi.
E perch’alto e superbo il loco pogge
Crescea, che degno di miracol parmi,
Una sala, cui sopra era un bel cielo,
Qual e ’l vero, v’appar senz’ombra o velo.

     Dentro e di fuor tutto fregiato e carco
Avea d’or fino il muro, e di giacinti.
Nel mezzo un Ercol poi tenea l’incarco
Sugli omeri non mai stanchi nè vinti
E da l’un lato a l’altro il celeste arco
Mille e mille color s’avea dipinti,
Col frate di Giunon, da la cui mano
Saetta uscir parea giù di Vulcano.

     Nel cerchio obliquo, ove del dì la luce
Rota, vedeasi, insculto il gran Centauro,
Col discreto animal, che seco adduce
Dolce amata stagione, e tempo d’auro.
Nè Castor vi mancava, nè Polluce
Congiunti, nè chi ’nfiamma il popol Mauro,
Quando col fiero cane, innanzi a libra,
I più cocenti fuochi in terra vibra.