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lxxxvi ESIODO

ne rimanevano rapiti. Perché sin da allora, come dice Pindaro, gli uomini prediligevano il vino vecchio e i canti nuovi.

E un altro nuovo, mirabile incanto offriva ai Greci la poesia d’Esiodo; ed era che dietro la poesia vedevano disegnarsi nitida la figura del poeta.

Non già che dai poemi omerici non emerga affatto, come erroneamente si afferma, la figura di Omero1; ma certo bisogna andarla a cercare, fra le pieghe della incomparabile narrazione, e nei riflessi dei vivissimi personaggi. Invece la figura d’Esiodo balza spontaneamente da sé, al primo piano: ci sembra di sentirlo parlare, ci sembra di scernere, linea per linea, la sua fisonomia arguta e profonda. Ché egli non si lascia sfuggire occasione di parlare di sé e delle proprie vicende; e, dopo letti i suoi poemetti, e specie Le opere e i giorni, l’uomo Esiodo ci riesce non meno noto e familiare del poeta.

Un poeta che non sia sempre scontento di tutto e di tutti, non è un poeta. E in Esiodo è una recriminazione continua della sorte che i Numi gli assegnano.

La sua famiglia deve emigrare? L’emigrazione è considerata una sciagura; e beati quelli che possono vivere coltivando la terra datrice di spelta (236). Naturalmente, per andare da Cuma eolica in Beozia, non si può fare a meno di un viaggio per mare. È vero. Ed è altrettanto vero che per Esiodo la navigazione è il peggiore dei malanni, e che del mare parla, sempre al contrario d’Omero, col massimo ribrezzo.

  1. Vedi, in questa collezione, la mia prefazione all’Odissea, pag. LVI sg.