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146 carlo castone rezzonico della torre

scese, e di venti popoli col braccio
65appena la domò dopo due lustri.
O Italia! O libertá! Certo potea,
spenti gli Ottoni imperiosi, e surto
l’odio e l’orror pel fulminato Arrigo,
il pugnace Lombardo un vasto regno
70stender dall’Alpi al doppio mar, frenando
dell’Eridano ondoso ambe le sponde
con auree leggi d’uguaglianza amiche,
se un Arato novello in un sol foco,
quasi in ottica lente, accolta avesse
75la generosa fiamma, onde fu vista
tutta avvampar l’italica contrada.
Ma cieca ambizion, vil gelosia,
insano orgoglio e lunga ira e vendetta
l’un contro l’altro i malaccorti spinse
80itali all’arme, onde divisi e domi
giá da se stessi a barbare catene
porsero alfin, benché fremendo, il piede.
     Ahi! che non vista dall’inerte volgo,
al sonno similissima ed al vento,
85fugge l’alata occasion, né torna
per lamentar di popoli, e delusa
ne geme la virtú de’ tardi eroi!
     Ma come senza lagrimar poss’io,
o misera cittá, l’aspre vicende
90e la non degna ricordar tua sorte?
Parmi veder della superba gente
l’esercito infinito a te d’intorno,
tutta ingombrando la valle ampia e il monte,
splender nell’arme, e in larghi giri al vento
95sciolte ondeggiar le congiurate insegne.
Chi è colui che così torvo gira
l’ardente orbe degli occhi, e pur le guance
non veste ancor della lanugin prima?
Vidone egli è, che degl’insubri al campo