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Pagina:Poeti minori del Settecento II.djvu/156

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E chi terrá dalla dirotta fonte,

sicché non sgorghi, il caldo pianto a freno,

quando la mesta ariminense Elisa

100le mal accese fiamme e la profonda

sempre aperta nel sen piaga discopre?
o se, consunto da latrante fame,
geme Ugolino, e sugli estinti figli
va brancolando per la cieca torre?

105Né tanto orror sulle cecropie scene

traeva il grave sofocleo coturno,
quando, innocente parricida, il mesto
Edipo fea di miseri ululati
tutto suonare il lugubre teatro;

no né tante mai sulle feroci carte

abbominate immagini di morte
pinse il cantor delle fraterne risse,
quante n’accolse entro le stigie arene
il gran pittor della vendetta eterna.

115Ne’ versi suoi l’aspro flagel temuto

Giustizia scuote, e in larghe rote aggira
lingueggiante di foco eterna spada,
sui malvagi non mai tarda e ritrosa.
Intanto a lui, cui l’armonia soave

120avido fece al divin carme invito,

scorre per l’alma il gelido spavento,
e al vero di virtú destro sentiero
il riconduce la temuta pena.
E bene a te, che con l’acuto dente

125mordi il sovrano triplice poema,

vincitrice dell’ invida censura,
ne folgorò talor l’alta bellezza.
Cosi, sebben de’ colorati oggetti
l’umide vie la cateratta ingombra,

130pure agli strali lucidi del giorno

sforzata cede il combattuto varco
la rigidezza dell’ottuso ciglio.