Pagina:Poggio Bracciolini - Facezie, Carabba, 1912.djvu/17

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introduzione v

latrice del clero. Le orazioni di Poggio furon fiere “invettive;” era la sua l’eloquenza del gladiatore che atterra e sgozza senza pietà col fiele nel cuore e il ghigno sulle labra; si sa come conciasse il Filelfo, il Valla, il Moroni da Rieti: un grandinar di contumelie verrine, con fraseggiare ciceroniano negli altri, con virulenza plautina nel Poggio, che sparge il ridicolo a piene mani, e non risparmia neppure l’antipapa Felice V. Ma negli otto libri della sua Historia fiorentina (1350-1455), ultima opera di lui, egli prende la cosa sul serio, organizza il racconto ed evita il vieto costume di infarcir la narrazione con sperticate concioni. Poggio dunque, al contrario del Salutati, del Barzizza e degli altri frondosi ciceroneggianti, seppe dominar il latino sí che il suo ebbe singolare pieghevolezza, spigliatezza disinvolta, limpidezza pittorica, frutto succoso della sagacia divinatoria onde aveva esemplato i testi, del lungo studio, del grande amore, e dell’esercizio continuo nella varietà delle sue scritture.

Or quest’uomo, che dalle angustie paterne, era giunto con tenacia prodigiosa non solo a formar la sua fortuna, ma ad essere il primo restauratore e maestro del mondo classico, ben si sentiva dominatore di cose grandi e irrisor delle piccole. Era il genio dell’umanesimo.

Al Poggio dunque ultra settantenne dovevan sorridere le Facetiæ, che gli eran fiorite sulle labra o dalla penna, a mano a mano, dal 1438, mandate via nel pubblico a frammenti per compiacenza di amici e voluttà di curiosi; le date più tarde derivate delle Facetiæ stesse sono il 1451 in De prœlio picarum et gracularum e il 1452 in De homine qui per biennium cibum non sumpsit. Sí che, se la compagine del libro fu completa nel ’52