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Mi sentivo triste, una indicibile malinconia mi circondava come un abito bagnato.
Dissi al farmacista:
— Non incomodatevi più a lungo; il pranzo del sindaco vi aspetta, ci rivedremo stasera.
Non se lo fece dire due volte.
— A stasera, ripetè, dandomi cordialmente la mano; e svoltò per un viottolo.
Ma era stabilito dal destino che in questo giorno io non potessi starmene solo co’ miei pensieri.
Inciampai in due bambini, accocolati sulla soglia del presbiterio.
— La signora Mansueta, mi disse il più alto dei due, o dorme o non ci vuole aprire. E il papà che ci ha detto di venire, e che è su dal signor curato?
— Suona un’altra volta, disse il più piccolo.
Suonai io, e Baccio fu tosto ad aprirmi quella memorabile porticina.
— Oh! bravi ragazzi, sclamò: siete aspettati. Su, su, Don Luigi vi vuol vedere.
E, mettendo un dito sulle labbra coll’aria di un cospiratore, mi sussurrò all’orecchio:
— Sono gli orfanelli della povera Gina; non sanno che la sia morta; ci penserà Don Luigi — intanto il pranzo è preparato... Resti servito...
— Come sta il signor curato? Si può vederlo?
— S’immagini; le farà un regalo.
E il buon uomo mi condusse fino all’uscio della camera del curato.
— Non le faccia parola del sindaco, mi disse, e si accommiatò.
I due fanciulli ci avevano seguiti ed entrarono nella camera con me.