Pagina:Praga - Memorie del presbiterio.djvu/163

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dizione Il sacrestano mi fece la sua confidenza agitando il turibolo a ravvivarne le brace. Il barlume del crepuscolo cadeva dall’alte e strette finestrello su certi visi pallidi di madonne e di sante; il bisbiglio sommesso dei devoti che entravano in chiesa, certi echi profondi, un acuto profumo d’incenso, — la maestà del luogo disponevano l’animo al meraviglioso.

Un po’ di prodigio cresceva attrattive alla misteriosa figura del curato.


XII.


Durante la benedizione uscii a passeggiare sul sagrato deserto; la porta della chiesa spalancata sugli arpioni, lasciava vedere l’altar maggiore illuminato e i riflessi cadevano sulle casupole della piazzetta.

La sera era buia: nelle tenebre fitte del villaggio, nessun altro lume che quello della chiesa. Così nella dura vita di quella popolazione montagnuola solo spiraglio d’ideale era la religione.

Densi globi d’incenso salivano innanzi al tabernacolo d’argento. Cantavano il tantum ergo, inno di lode, dalle intonazioni gravi e melanconiche come tutti gli altri della chiesa.

Un solo popolo, che io mi sappia, fortunatissimo popolo d’artisti, fece della gioia un sentimento sacro, — fu il Greco, che inghirlandava di rose e di verbene le colonne dei suoi templi, e intrecciava danze festose innanzi all’ara del sacrificio. — Non ostante il biblico precetto del servite Domine in laetitia, il concetto della nostra religione,— come di tutte quelle che il mistico Oriente ha generato, — è il dolore. Tutte le sue parole sono meste, tutte le sue