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quasi miracolosamente alle prigioni di Mantova da cui, a istruttoria finita era destinato per seguir la sorte paterna, allo Spielberg.
Troncati gli studi, confiscati i beni, non si perdette d’animo tuttavia. Natura temprata alla lotta, maschio carattere, salute a tutta prova, giurò non solo di affrontare, ma di vincere la battaglia che gli si offriva.
Passò in Inghilterra, le terra eternamente ospitale a tutte le sventure. Si rannicchiò in una cameretta, la più a buon mercato che potè trovare nel labirinto di Londra; contò il poco peculio rimastogli dal naufragio della sua fortuna, e, fatto il calcolo che ne aveva ancora abbastanza per non temere, per un anno almeno, la fame, riunì in un pacco le molte lettere di raccomandazione che gli amici della sua famiglia gli avevano procurato in gran numero e le pose in fondo al baule. Voleva tentare, almeno tentare, di poter dire un giorno di dover tutto a sè stesso. L’orgoglio a volte, è la più nobile e la più feconda delle virtù.
L’anno in cui era stato avvolto nel movimento rivoluzionario, doveva essere quello della sua laurea in medicina; in esso aveva visto invece aprirsi al padre la tomba, a sè la prigione e l’esiglio. Ora bisognava riprendere i corsi; ma l’infortunio che lo aveva così spietatamente trafitto d’un tratto nel suo cuore di figlio e di patriota, aveva ripercosso i suoi colpi nel cervello dello studente.
Le lagrime versate, le bestemmie espresse, le diuturne lotte dello spirito in quegli eterni interrogatorii di cui parla Silvio Pellico con tanta amarezza, tutto ciò aveva portato nelle sue idee una confusione che confinava quasi colla dimenticanza.