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capo dacchè era uscito dalla scuola, gli attraversò la mente: che cioè esistevano dei libri e che probabilmente essi dovevano essere stati fatti per qualche cosa. Ne chiese; e fu un grande avvenimento in famiglia. Le due pulzelle corsero a nascondere nel solaio certi volumi che usavano leggere di soppiatto e che vendeva loro di tanto in tanto il compiacente mercante girovago (il masciago) che passava pel paese ogni quindici giorni; e il lettore del Manuale di Filotea fu molto contrariato di veder un vuoto nelle due file di libri ascetici che componevano tutta la sua supellettile letteraria.
Poche persone venivano a visitare l’ammalato: la casa De Boni aveva qualche cosa scritto sulla facciata che parea dire alla gente — «stammi lontano». E ancora, a quei che vi andavano di tanto in tanto, vuoi per carità, vuoi per altri fini, la mezz’ora, presso quel capezzale, somigliava a una mezz’ora passata in una tomba. Il vecchio podagroso li salutava con un monosillabo, poi li lasciava parlare, mentre la sua attenzione pareva aggirarsi le mille miglia lontano. Le labbra erano in perpetua agitazione, e gli occhi che teneva abitualmente fissi alla parete davanti a sè, d’improvviso, a un punto inconcludente del discorso che gli era fatto, si animavano e venivano a squadrar stranamente dal capo ai piedi il narratore. Ciò che facea rabbrividire e balzar sulla sedia costui. A volte, li interrompeva sul più bello di una narrazione con un addio, secco come una acciuga, e riapriva un San Tomaso d’Aquino, o il Mese di Maria, riaccomodandosi il guanciale sotto la testa.