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un avvenimento stranissimo faceva dimenticare quel tempaccio agli avventori raccolti nella così detta bottega da caffè, l’unica del resto, a cinque leghe all’ingiro, che potesse portare o bene o male tal nome. La pareva mutata, all’immenso ronzio che vi si udiva, in un alveare di api antidiluviane: chi ragionava ex cathedra, chi avanzava osservazioni sommesse, chi parlava all’orecchio del vicino, chi girava da questo a quel capannello come in cerca di consigli o di spiegazioni; talchè la povera conduttrice del negozio, sudata come un pulcino, faceva una confusione non mai veduta nel distribuire le tazze di caffè, i capiler corretti e i bicchierini di anesone di Brescia.
— No, no, no, diceva a mezza voce, aggiustandosi la cravatta intorno al collo, il vecchio cancelliere Anastasio; no, qui c’è sotto un mistero.
— Mysterium, mysterium invocat! notava cattedraticamente il maestro di scuola; e, ne attesto i sette savii della Grecia, il mistero che circonda questi signori non comincia qui.
— Eh! bontà di Dio! voi siete pulcini nel guscio ancora; e volete pigolare, e delle cose e della gente delle grandi città. Se ci aveste passato un mese e cinque giorni di seguito, come me... bontà di Dio!... a Milano! I palazzi, i teatri, gli equipaggi... il corso... il caffè, e... come lo chiamano il laus... lans... chinetto, il maca... ca... il camao... giuochi d’inferno!... Quante famiglie di cui ieri si parlava come del re Erode, ricchi da non saper più contar i denari... da un momento all’altro, trac! colle gambe all’aria... e chi l’ha avuta, l’ha avuta! Allora, somigliano buone anche le cittaduzze di campagna, anche le borgatelle dei montanari.