Pagina:Prati, Giovanni – Poesie varie, Vol. II, 1916 – BEIC 1901920.djvu/291

Da Wikisource.

più non rimane che lanciarvi al bieco
20quadrivio ad aspettar, come i lenoni,
la preda al varco; e a voi, splendido Marte,
che vestirvi da birro, invigilando
le prigioni o le forche.
AI mondo in uggia
son venuti gli eterni; e Cristo in croce,
25questo divino galileo. trafitto
pende sul colle, e, le codarde mani
mentre il torvo proconsolo si lava,
l’infame e incastigato oro di Giuda
suona nel sacco ai pallidi uccisori.
30E i pallidi uccisor vivon pur sempre
nelle buie caverne a contar l’oro
d’Iscariotte e patteggiarlo ai figli
sulle bare de’ padri. E non diverso
dal circonciso è un battezzato armento,
35che, sdegnoso di voi, vaghi immortali,
assiderati agli euri e alle pruine
di fuor vi lascia e il focolar vi nega.
Che fai, vecchio Saturno, e tu, marito
di Venere divina, e voi, Polluce
40e Castore, superbi occhi del cielo?
Che fai, col raggio d’una stella in fronte,
candida Urania? Udite, udite il suono
delle mense contese e il ferreo rugghio
de’ chiavistelli. La tribú nefanda
45delle febbri si leva e dal Soratte
spirali le bufie a flagellarvi Tossa.
Ebbe», poveri numi, onde sorrise
la terra d’Asia e fu cantato ai sacri
monti ed ai mari il testamento ncheo;
50ebben, poveri numi, il mio stambugio
io vi schiudo a ricovro.
Entrate, o mesti
pellegrinanti Alle mie mense ancora