Pagina:Prose e poesie (Carrer).djvu/243

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sta frase. Il linguaggio della Vulgata è un linguaggio a parte. Certamente nessun latinista vorrebbe imitarlo: ma chi oserà di chiamare goffo ed inetto quel latino? Esso ci risuona nell’anima fino dalla nostra infanzia, e ci sembra nella sua maestosa rozzezza il linguaggio de’ nostri avi che non abbiamo conosciuti, ma che speriamo di rivedere, e che siamo costretti di venerare. È il linguaggio d’enti celestiali che sdegnano un pomposo fraseggiamento, e mostrano coll’umile stile che adoprano quanto sia loro necessario d’abbassarsi per giungere fino a noi. Provatevi a tradurre la Bibbia con frasi eleganti; metteteci un po’ dell’adorno e del vago. Eh! la magia dello stile della Vulgata è inesprimibile. Ma chi è di sì corto vedere, che non intenda ciò che conferisce a rendere quello stile sì dolce e sublime? Come è dolce, com’è sublime ciò che apprendiamo per primo dalla bocca della nutrice! Come è bello, come è poetico ciò che ci è ripetuto al suono dell’organo nelle nostre chiese, ove le nostre sventure e i bisogni nostri ci adunano! Che ci conforta tra le minaccie del temporale, che ci è susurrato nelle malattie, che accompagna i nostri cari al sepolcro! Chi vuole tradurre la Bibbia in tante lingue, quante sono le nazioni che pregano il Dio di Giacobbe e d’Isacco, non parmi che voglia il meglio. Perchè non concedere che sia una la lingua della preghiera? Che ci riconosciamo almeno in questo fratelli dall’uno all’altro confine del mondo.