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Pagina:Prose e poesie (Carrer).djvu/362

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raviglia che lo sciallo continuava: Io mi nutriva, mentre fui attaccato al dosso di una pecora, dell’erbette più dolci che sappiano produrre i pascoli dell’oriente; me ne usciva in ischiera colle compagne senza mai stancarmi, obbediente alla verga del mio conduttore. Il ferro mi ricise, fui tinto, ridotto in fili e tessuto; ma non ho per questo cangiata la mia mansueta natura. Guai se io non mi fossi conservato lana così docile e facilmente pieghevole come sono! Non avrei fatto passaggio dalle terre degl’infedeli a paesi di civiltà e pulitezza, e non avrei avuto l’onore di venirmi a posare sulle vostre morbide spalle, e di cingere il delicato vostro collo. (Il complimento andò a’ versi della signora, che fu meno restia ad ascoltare il restante discorso del proprio sciallo). E però, signora mia, permettetemi ch’io vi consigli di non istizzire per un poco di noia che vi sia data da chi vi parla pel vostro bene, e dice la verità. Conservate la mitezza del vostro naturale anche quando non vi si danno molli erbette da pascere, ossia non vogliate udir sole le lusinghiere parole dei cascamorti. Vedete; abbattendomi di avvolgermi per luoghi selvatici, che pur mi toccava alcuna volta, ho sempre osservato che le spine portavano via ciò che in me aveavi di men liscio e rimondo, e il mio vello, dopo quella naturale cardatura, appariva più morbido e lucente. La vita ha infinite trafile per le quali è forza passare anche ai più fortunati; ma le forbici, il co-