Pagina:Puskin - Racconti poetici, 1856.djvu/139

Da Wikisource.
98 eugenio anieghin

scerlo. Il padre le soffiava all’orecchio: “Dunia, attenzione!” Quindi un servitore recava una chitarra, e Dunia incominciava a miagolare:

Oh! vieni a me, nel mio palazzo d’oro!1

Ma Lenschi non voleva ancora lasciarsi impególare alle panie del matrimonio, e niente altro ambiva che contrarre più stretta familiarità con Eugenio. L’onda e il sasso, il verso e la prosa, il ghiaccio e la brace, non son più diversi fra loro di quello che fossero Lenschi e Anieghin; eppure divennero amici sviscerati. A prima giunta, quel reciproco contrasto cagionò qualche urto; ma l’incontrarsi ogni giorno a cavallo o a piedi, fece sì che divennero compagni inseparabili. Così, pur troppo è vero, la scioperatezza è il nodo che ravvicina e unisce gli uomini.

Ma fra noi nemmeno tale legame esiste. Accecati dall’orgoglio, reputiamo noi stessi come tante unità e gli altri come tanti zeri. Tutti ci crediamo nuovi Napoleoni, e consideriamo le migliaia di bipedi nostri simili, come gli istrumenti dei nostri capricci; ogni affetto ci sembra cosa stramba e stolta. Eugenio era più tollerante; conosceva gli uomini e li disprezzava in genere, ma faceva in particolare alcune eccezioni. Ve n’erano alcuni che egli stimava e dei quali rispettava l’opinione. Ascoltava Lenschi con un sorriso; quel linguaggio colorato ed eloquente, quello spirito incerto nei suoi giudizi, quell’occhio sempre lampeggiante d’entusiasmo, erano cose nuove per Anieghin. Si asteneva da ogni parola che potesse

  1. Primo verso d’un canto popolare russo.