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eugenio anieghin | 135 |
a nuoto sull’acqua, s’avanza con cautela, sdrucciola e casca. Facciamo lietissimo viso ai primi fiocchi di neve; ci par vedere piover dal cielo un nembo di candide stelle. Che si può fare allora in una villa isolata? Forse passeggiare? Ma la monotona nudità della natura funesta e dismaga la vista. Cavalcare per le steppe disabitate? Ma ad ogni passo il cavallo può scivolare e stramazzare al suolo col cavaliero. Sedere a tavolino e accingersi a legger De Pradt1 e Walter Scott? — Non vuoi? — Verifica i tuoi conti; adírati; bevi; e la lunga serata ti parrà breve. Così pure ti parrà quella di domane, e per tal modo passerai l’inverno assai giocondamente.
Anieghin, come un altro Childe Harold, si diede alla meditazione e all’ozio. Ogni mattina fa un bagno freddo; poi prende una stecca mezza rotta e gioca da sè solo al biliardo con due palle d’avorio, fino al far della sera. Allora lascia il biliardo e la stecca; fa apparecchiare davanti al caminetto, e aspetta. Ecco Lenschi in una troica2 di cavalli bigi.... — Presto! la cena!
In onore del poeta si è messa in ghiaccio una preziosa bottiglia della vedova Cliquot o del Moët.3 Il vino di Sciampagna è il vero Ippocrene. Coi suoi schizzi e colla schiuma somiglia a tante cose! Io gli son schiavo. Quante volte gli ho sacrificato il mio ultimo denaro! Ve ne ricordate, amici? Quante migliaia di baie, di facezie, di versi, di dispute e di gai progetti zampillavano da quelle magiche bottiglie!