Pagina:Puskin - Racconti poetici, 1856.djvu/198

Da Wikisource.

eugenio anieghin 157

de al suo cembalo, e prova alcuni accordi. Poi volgendo gli occhi ad Olga esclama: “Io son felice, non è vero? È tardi. Convien che io parta.” Intanto soccombe dall’angoscia. Nel dire addio alla fanciulla gli par di sentirsi strappare il cuore. Essa lo mira in viso: “Che avete?” grida. “Niente,” egli risponde e raggiunge la porta.

Tornato a casa, esamina le pistole, le ripone, si spoglia, e apre un volume di Schiller. Ma sempre lo stesso pensiero l’opprime, e l’impedisce di dormire. Scorge davanti a sè Olga adorna d’una bellezza ineffabile. Chiude il libro; prende una penna e scrive currenti calamo alcuni versi pieni d’amorose inezie, ma sonori e dolci. Poi, nel suo entusiasmo lirico, se li rilegge ad alta voce. Per fortuna questi versi mi sono caduti fra mano; eccoli.

       Dalla fortuna oppresso
            Aspetto impazïente il dì venturo.
            Parla, o sfinge crudel, tetro futuro:
            Mi cingerai d’alloro o di cipresso?
            Mi sta sul capo, un ferro o un fior, sospeso?
            Cadrò trafitto da letal saetta
            Oppur dal gran cimento escirò illeso?
            Qualunque sia la sorte che m’aspetta
            Io dirò rassegnato e disdegnoso:
            Benedetta la veglia e benedetta
            L’ora del gran riposo.
            Forse, questa sarà l’ultima guerra
            Del rio destin che bersagliar mi suole.
            Domani riderà, come oggi, il sole,
            E canterà la terra;
            Ma privo ormai d’udito e di veduta
            Nulla udrò nè vedrò. Dai vivi scisso,