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Pagina:Puskin - Racconti poetici, 1856.djvu/213

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172 eugenio anieghin

mondo intero, s’abbandonò liberamente al suo dolore e proruppe in pianto. Poi, si mise a frugare nei libri. Dapprima non voleva aprirli, ma i titoli strani e disparati la empirono di meraviglia e lesse con avidità, e un mondo nuovo apparve alla sua vista. Sebbene, come sappiamo, Eugenio avesse da gran tempo rinunziato alla lettura, e ceduto ai tarli la sua biblioteca, pure teneva presso di sè alcuni volumi, quali, per esempio, i poemi dell’autore del Giaur e di Don Giovanni, e due o tre romanzi che rappresentavano i costumi contemporanei con bastante esattezza: quella immoralità, quell’egoismo, quella secchezza d’idee, mista di melancolia e d’irritazione che ferve e s’agita nel vuoto.

Alcune pagine portavano impresse le tracce di una unghia tagliente che avea segnati con strisce i passi più notevoli. Taziana fermò particolarmente su questi la sua attenzione. S’istruì con un palpito di quelle osservazioni, di quei pensieri, che avean colpito Anieghin e che egli aveva meditati e ponderati a lungo. Qua e là sui margini un punto interrogativo, una croce o alcune righe scritte col lapis rivelavano i più interni sensi del nostro eroe.

Adesso, Taziana incomincia a comprendere un po’ meglio, la Dio mercè, il carattere di colui per cui essa sospira in forza d’una tirannica fatalità. Chi è egli questo originale pernicioso e tristo?... Un cittadino dell’inferno o del cielo, un angelo o un demonio ribelle? Forse un fantasma, una copia vana, un moscovita con in dosso un mantello di Harold, una interpretazione dei capricci altrui, un indice alfabetico delle parole di moda, in somma una parodia?