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eugenio anieghin 187

mediocrità sola è all’altezza delle nostre spalle, e non ci sembra stramba e folle?

Fortunato colui che in gioventù fu giovine; colui che maturò nella giusta stagione; che seppe sopportar con coraggio il freddo ognor crescente dell’età, che non si pascè di sogni ambiziosi e grandi; che non allontanò da sè il profano volgo; che di venti anni fu un damerino e un bravo, e di trenta anni prese una moglie adorna d’una buona dote; che di cinquanta anni si liberò dei suoi debiti particolari, e altri; che zitto zitto, piano piano, acquistò riputazione, onori e ricchezze; e di cui tutti s’accordano a dire: il tal di tale è un’ottima persona.

È un tormento il pensare che la gioventù ci fu data invano, che la tradiamo, e che ci tradisce ad ogni istante; il veder che le nostre migliori brame, le nostre più floride speranze, si sono sbiadite e sperse come le foglie dei boschi al vento d’autunno. È affannoso il mirare davanti a sè in prospettiva una infinita serie di pranzi e dover considerar la vita come una funzione e seguir le pedate della gente senza poter dividere nè le opinioni, nè le passioni delle masse.

Converrete meco, lettore, che è una posizione intollerabile quella d’un uomo, il quale divenuto l’oggetto delle critiche universali, è dichiarato dalle persone di senno un originale pretenzioso, o un matto feroce, o un mostro diabolico, o finalmente il fratello carnale del mio demonio familiare. Anieghin, (io torno a intrattenervene), Anieghin, dopo di avere ucciso in duello l’amico; dopo di avere vissuto sino a ventisei anni senza scopo e senza giudizio, lan-