Pagina:Puskin - Racconti poetici, 1856.djvu/265

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224 pultava.

La campagna intorno intorno tace. Ma una grande agitazione e confusione regna nel palazzo. Affacciato alla finestra d’una torre, Cocciu-bei immerso in profonde riflessioni guarda il cielo con tristezza.

Dimane Cocciu-bei perirà. Egli andrà senza timore incontro alla morte; non gli cale della vita. Che è per lui la tomba? Un grato letto. È pronto a coricarvisi. Non gli incresce il supplizio, ma solo il modo in cui vi è condannato. Gli incresce di spirare ai piedi dell’aborrito seduttore di sua figlia, gli incresce di morire in silenzio, come bove al macello, e per ordine del suo Zar che lo abbandona in balía del suo nemico. Gli incresce di perder l’onore; di trascinar seco nella fossa i suoi compagni; di udir le loro maledizioni immeritate; di incontrare lo sguardo trionfante dell’assassino, mentre cadrà innocente sotto la scure infame; di non aver nessuno cui fare erede del suo odio e mandatario delle sue vendette!

Gli torna alla mente Pultava e la dolce famiglia e i dolci amici, le sue ricchezze, la sua gloria, i canti della gentil Maria, la antica casa nella quale egli nacque, dove fu nutrito, ove conobbe la fatica e il riposo e tutto ciò che gli molceva il cuore; tutto ciò che ora egli abbandona, e perchè?

La chiave stride nella toppa arrugginita. Lo sventurato bei, risvegliato da quel suono, pensa fra sè: “Ecco il banditore della Croce che viene per scortarmi al patibolo. Ecco l’assolutore dei peccati, il medico delle piaghe della coscienza; il servo di Cristo immolato per noi. Mi reca il corpo e il sangue del mio Dio, per rinfrancarmi l’animo, per darmi la virtù di disprezzar la morte e di acquistar l’eterna vita!”