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Pagina:Quel che vidi e quel che intesi.djvu/44

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cato, ma che, essendo primavera, avea perduto ogni educazione. Ed io per riprenderlo, ero uscito da una finestra alta parecchi metri da terra e disceso per il muro sgretolato. Da altra finestra mi aveva visto mio fratello Pietro in quella pericolosa discesa, ma non avea fiatato per non spaventarmi e farmi precipitare. Ma, quando fui tornato su, mi diede tanti di quei «pitolini» nella testa da levarmi quasi dai sensi; per poco non mi accoppò. Il «pitolino», cosa e parola per esprimerla, era invenzione di quel mio fratello, che menavane vanto. Consisteva nel ripiegare il dito medio in fuori sulle altre dita della mano destra ed afferratomi, con la sinistra per i capelli, mi appoggiava la testa sul letto e sulla stessa, con la destra, menava, con grande effetto, colpi perpendicolari. Fortuna ch’io avea la coccia dura!


In questo collegio rimasi cinque anni; e vi meritai parecchie medaglie. Appena, però, ho potuto toccarle. Mio fratello prete, il Canonico Francesco, me le prendeva per conservarmele e più non le vidi.

IV.

A ROMA NEL COLLEGIO BANDINELLI.


Nel tempo ch’io rimasi nel Collegio di Montefiascone morì Don Pasquale. La qual morte mi fu estremamente dolorosa. Uomo di gran cuore, di gran sentimento artistico, ignorante come una talpa. Da lui non ho appreso che una brutta calligrafia ed una molto dubbia ortografia: «Giggi», «Pariggi» e simili.

Nello stesso lasso di tempo avvenne anche la morte di mio