Pagina:Quel che vidi e quel che intesi.djvu/61

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temmo il piede nel territorio che, allora allora, l’Austriaco nemico avea abbandonato per ritirarsi nelle sue fortezze. Giunti che fummo a Padova, per la prima volta prendemmo la via di ferro che trasportò tutta la Legione a Venezia.


Pareva che tutta Venezia fosse ad attenderci alla stazione. Eran pronte sul Canale grandi zattere tutte pavesate e coperte di tappeti per trasportarci a Piazza San Marco. I Veneziani che erano venuti ad incontrarci ci scortarono lungo il Canal Grande in centinaia delle lor gondole, una grande orchestra galleggiante suonava durante il tragitto; dalle finestre e dai veroni, parati ed imbandierati, le Veneziane ci gettavan fiori acclamando. E così, lentamente, si arrivò in Piazza San Marco, dove si mise piede su tappeti orientali con i quali era stata coperta. Da allora in poi mai non c’è stato, per me, alcun spettacolo che, più di quello che vidi quel giorno, mi abbia mai toccato il cuore e l’immaginazione.

Pensate che noi vedevamo quel popolo ricco di tanta storia e di tante glorie, che fu padrone dei mari, mentre splendeva il più bel sole d’Italia, tornato in libertà dopo la bestiale tirannide del bastone croato, ebro di gioia e fremente in quel sogno di città sorta dal mare!...

Noi ci accampammo al Lido; ma quanti della Legione avean mezzi tenevano ai loro comandi una gondoletta che ad ogni momento libero li trasportava a Venezia. Ai minori ufficiali che di tutte queste sparizioni si lagnavano con lui, invariabilmente rispondeva il colonnello Del Grande:

— Lasciateli fare sti ragazzi. AI momento di battersi li troverete tutti. A che ora del giorno si squaiano? Alla sera.... Embè, chiudete gli occhi!...

Si capisce bene che questi fuggitivi erano accolti in Venezia con cene e con balli. Cosa eran di gentile le Veneziane con «quei bei tosi dei roman!...»