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XXVII.


Non oso dir, ne farne dimostranza
De la gran doglia, ch’al core mi sento:
Ch’io son caduto in tanta disperanza,
Che ogni sollazzo contomi tormento;
Perch’io mi vidi in tale sicuranza,
Che Dio d’Amor facìa il mio talento;
E pur del vero ho commesso fallanza
In ver del mio Amore, e fallimento;
Onde prego voi, donne innamorate,
E quanti innamorati son di core,
Che chiamino mercè per cortesìa
A quella, ch’è la fior de le contrate:
Ch’aggie membranza di quel, che si muore
E guardasi di dicer villanìa.


XXVIII.


Donna, lo rëo fallir mi spaventa,
Quando mi membra lo mio cor fallace
La fellonia, come dava intenta
Di stare a voi fïero, e contumace;
Sì ch’io non posso veder come assente,
Che ’n voi deggia trovar mercè verace;
Se no’, che vostra bontate consenta
Di rivocarmi a servo, se ’l vi piace:
Scusandomi, ch’Amore isnaturato
Ogn’ora stretto in tal guisa m’affrena,
Ch’io son dispensatore d’umiltate:
Ed altra volta mi tien sì infiammato
Del vostro orgoglio, e la doglia, e la pena,
Ched’io despero in quella volontate.