Pagina:Raccolta di rime antiche toscane - Volume primo.djvu/132

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Ed in ciò non si usasse pauritade;
Che di fina amistade
Certo lungo tardar mi pare matto;
E comperato accatto
Non sa sì buon, com’ quel ch’a dono è priso:
E sì come m’è avviso,
Indugio a grande ben tolle savore.


III.


Tutto ’l dolor, ch’io mai portai, fu gioja:
E la gioja neente appo il dolore
Del mio cor lasso, a cui morte s’accorga:
Ch’altro non veo omai, sia validore:
Che prïa del placer poco può noja;
Ma poi forte può troppo, se riccore
D’altrui convien, che ’n povertà si porga;
Che gli torna a membranza il ben tuttore.
Adunque io lasso in povertà tornato
Del più ricco acquistato,
Che mai facesse alcun del mio paraggio:
Soffera Dio, che più viva ad oltraggio
Di tutta gente del mio forsennato?
Non credo già, se non vuol mio dannaggio.
Ahi lasso! com’ mal vidi amaro Amore,
La sovra natural vostra bellezza,
E l’onorato piacientier piacere,
E tutto ben, ch’è ’n voi somma grandezza;
E vidi peggio il dibonaire core,
Ch’umiliò la vostra altera altezza
A far noi due d’un core, e d’un volere:
Perch’io più mai non portai ricchezza:
Ch’a lo riccor d’Amor null’altro ha pare:
Ne Reïna può fare,