Pagina:Raimondo Montecuccoli, la sua famiglia e i suoi tempi.djvu/359

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di lui e di una principessa Lichtenstein, giovane dai contemporanei lodata di bellezza e di virtù, allevata alla corte dell’imperatrice Eleonora, come dice l’Hussein, e che da lui fu veramente amata in sin ch’ella visse. Di lei scrisse la vita l’abate Filippo Maria Bonini, opera questa che non piacque al Foscolo, e che non mi fu dato di ritrovare in luogo alcuno; di essa si ha un esemplare nella biblioteca imperiale di Vienna, nella qual città fu stampata da Paolo Viviani nel 1667.

Ci rimane la lettera colla quale il 10 di marzo 1657 dava parte Raimondo al duca di Modena della contratta promessa di matrimonio; e il duca, quantunque vedesse per queste nozze vie più indebolirsi la speranza del ritorno di lui ne’ suoi stati, non mancò di seco congratularsi per un avvenimento a lui così fausto. A Modena un tal Bernardino Bianchi, secondo è costume in Italia, per quelle nozze dettò due sonetti, che manoscritti vidi nell’archivio di stato degli Estensi, e che saranno stati posti a stampa, come se n’ha indizio nel nome dello stampatore che si legge in fine. In questi sonetti che riprodurrò in appendice , la falsa scuola che guastava allora pressoché tutte le poetiche produzioni italiane, appena lascia che si possano lodare alcuni buoni concetti che in essi pur si trovano; tra i quali tuttavia non porremo quello della margherita da Raimondo pescata in mare (e poteva almen dire nel Danubio). Che poi la valentia dello sposo nello scrivere, di cui il poeta vien lodando, fosse anche in Vienna pregiata a dovere, ritrar si può dal veder che l’arciduca Leopoldo Guglielmo lo ammise a far parte di quell’accademia italiana da esso, nel decembre dell’anno prima, fondata nel suo palazzo in Vienna, e che era composta di dieci italiani (il general Mattei, Francesco Piccolomini, Giberto Pio di Savoia, Orazio Buccelleni ecc.). E su questo particolare dello studio della lingua italiana in Vienna non va passato sotto silenzio l’avere gli ambasciatori veneti Zeno e Contarini lasciato memoria, che dell’idioma nostro abitualmente l’imperatore Ferdinando facesse uso; ché anzi