Pagina:Rapisardi - Poemi liriche e traduzioni, Remo Sandron, 1911.djvu/520

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     Ma provvida talor: come la morte
     Essa gli uomini uguaglia. Hai tu veduto
     L’infermo imperator? Tutto alla nuova
     Del suo venir si riversò il villaggio
     Nella città ch’ei traversar dovea,
     Ed io con gli altri. Non vulgar talento
     Di festeggiare il novo eletto o bieca
     Brama di contemplar la sua disfatta
     Sembianza mi traea, ma un sentimento
     Indefinito, non saprei, che forse
     Troppo lontan dalla pietà non era.
     Al sindaco mi strinsi: egli dovea
     Complimentarlo; e il poveretto al solo
     Pensier, ch’egli, egli proprio era sul punto
     D’appresentarsi ad un sovran sì grande,
     Sudava sangue come Cristo all’orto.
     Non inutil gli fui: col bronzeo petto
     Spezzai la folla, e tra gli evviva e gl’inni,
     Che assordavano il cielo, a pochi passi
     Dal carrozzone imperíal giungemmo.
     L’imperatore si tenea diritto
     Militarmente a lo sportel; non era
     Pallido in volto ma cinereo; quasi
     Lama di piombo s’affilava il naso;
     E la barba, che prima era sì molle,
     Arida irrigidía quale radici
     Di morta pianta. Simili a faville
     Tra l’ammucchiate ceneri d’un veggio
     Gli lustravano gli occhi, ed uno sguardo
     Vago, lento movea, come se tutto
     Fosse il popolo e il mondo a lui straniero.
     Tale in chiesa vid’io rizzarsi a mezza
     Bara fra neri drappi un infelice,
     Cui la pietà del frettoloso erede

     Avea prima dell’ora a Dio spedito,
     Fisar vitreo lo sguardo in fra gli accesi
     Ceri e i becchini, e balbettar parole
     Incomprese: fuggía l’inorridita
     Ciurma, e urlando ammontavasi alle porte
     Incapaci a tal gregge; anch’esso il prete
     Volse il tergo all’altar, non so che strani
     Segni all’aria trinciando. Il redivivo
     Boccheggiante ricadde, e non gli spiacque,
     Credo, il ritorno a la quíete immensa,
     Pari in tutto a costui mi parve allora
     Quest’infelice imperator, che in tanta
     Pompa, fra tanti plausi (ei che già mezzo
     Nella tomba del padre era disceso)
     S’avvíava a salir sul più temuto
     Trono d’Europa. Si riscosse un tratto,
     Quando iterato da la folla il nome,
     Di Sadova echeggiò; volse sgomènto
     Lo sguardo, quasi a ricercar sè stesso,
     E portando la man lenta al cappello,
     Un sorriso ineffabile sorrise.

Mi scevrai dalla turba, e del tranquillo
     Borgo ripresi volentier la via.
     Fresco odorava aprile; in su’ boscosi
     Greppi rosea sfioría l’ultima luce,
     E, come filo d’arrotata falce,
     Nell’azzurro lucca la nova luna.
     Vaghe dintorno a me ne la quíeta
     Ombra sfumavan le sembianze; tutto
     S’immergea nel silenzio ampio; smarrito
     Veleggiava il pensier, mentre lontano
     Della rombante vaporiera il grido
     Lamentevole all’aria si perdea.


L’ASCETA.


I.


     Da mille prove austere esercitato,
In visíoni oltraterrene immerso,
Visvámitra da molti anni vivea;
E già del suo trionfo in su’ ribelli
Domati sensi era vicino il giorno,
Allor ch’Indra geloso (è di tal nume
Oppugnar la virtù che a lui ne adegua)
Un’Apsárasa indusse a romper guerra
Al terribile asceta. Amba, le disse,
Tu che in membra perfette hai destro ingegno,
Quel superbo mortal doma, che impero
Tanto ha di sè, che ov’altro fior ne acquisti,
Scombujerà tutti i miei regni, e armato
Del suo voler detterà leggi al mondo.
Ubbidíente al nume (e chi potrebbe
L’ira affrontar che da tanti occhi ei vibra?)
Nell’aria si tuffò, qual mergo in lago,
La bellissima ninfa, a cui d’amore
Tutte son l’arti ed i prestigj aprici,
E con celere nuoto al bosco venne,
Dove immobile il Saggio e tutto assorio
Ne lo splendore d’un pensier sublime,
Bruto dell’Ideale, al ciel sorgea.
Indra venne con essa; e forma e voce
D’un cóchilo assumendo (angel divino
C’ha di canto e d’amor l’anima ordita)
Fra’ rami d’un’opaca arbore occulto
Secondò dell’astuta Amba gl’inganni.

     Era nella foresta un vivo fonte,
Che lacrimando da un’aerea rupe,
Una folla di miti erbe e di fiori

Qua e là per gli anfratti ermi nutría.
Quivi diritto su la cima alpestre
Meditava l’asceta. Alto era il sole;
E abbarbagliato, estatico tacea
Nel gran mistero luminoso il mondo,
Ed ecco un’aura lascivetta insinua
L’ale tra’ rami; curíose svegliansi
Scintillando le foglie, e dolci fremiti
Propagando si van per le fresche ombre;
Si confondono in un voluttuoso
Palpito i raggi e le fragranze; e un canto
Divin le ascoltatrici aure possiede,
Come odorato zefiretto estivo
Per arso pian cui vedovò la falce,
Passava la canora aura sul core
Del meditante solitario, quando
Su su da’ greppi erbosi, a poco a poco
Emergere ei mirò d’Amba le forme.
Alte sopra la testa in arco piega
La ninfa rigogliosa ambe le braccia,
E con le palme un bel canestro regge
D’ambrosie frutta ridondante: roridi
Pendono intorno smeraldini pampini;
Si pompeggian nell’ambra e nella porpora
Prorompenti dal verde opimi grappoli,
E tra le foglie luccicanti in copia
Auree susine e rosee mele occhieggiano.
Giù dal capo venusto in due partita
Scende la chioma su le nivee spalle,
Scende su’ lombi enormi, e un manto d’oro
Dir la potresti dal pudor tessuto
A invidíar tanta bellezza al cielo.
Ma nude e bianche e arditamente erette
Sboccian le mamme; castigato e lieve