Pagina:Rapisardi - Poemi liriche e traduzioni, Remo Sandron, 1911.djvu/523

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In un pensier d’immensa pace; fosche
Sedeano l’ombre intorno a lui, ma chiara,
Qual da un’intima luce irradiata,
La sua fronte alla luna alto splendea.
Si trasse a lui l’augusta vecchia, e inteste
Sul capo in rispettoso atto le mani,
Così prese a parlare: O luminosa
Fonte d’ogni virtù, colonna a cui
La verità, l’umanità si appoggia,
A’ piedi tuoi supplice io vengo. In pianto
Vivon da innumerati anni i miei figli
Sotto ad immane signoria. Qual dio
Piegar potea le lor cervici al giogo
Di tanta crudeltà? Quando avrà fine,
Se pure è un fine al danno mio prescritto,
L’immeritata servitù? Dispersi
Per le regioni della terra, ignoti
All’amore, alla pace, erran divisi
D’ogni delizia della vita, e orrendo
Suona intorno, il lor nome. Eppur, mel credi,
Innocente hanno il core, acre l’ingegno.
Forti le braccia alla fatica avvezze,
L’animo tollerante e al bene intèso.
Chi vantar può, fra quanti cori ha il mondo,
Di lor più sobrio e più frugal costume?
Poco chiedono o nulla, e il poco e il nulla
A chi vive di lor sembra soverchio;
Indi supplizio è la lor vita, e strazio
Perpetuo a me che li portai nel fianco.
O sapíente, a te, simile a’ Suri,
È la dottrina e la virtù dischiusa;
Ma il tuo saper, la tua virtù che giova,
Se gli altrui danni a mitigar non vale?
O signor del castigo, i nostri mali
Vendichi alfine un tuo consiglio; ciechi
Desolati noi siamo, e la parola
Della luce aspettiam da la tua bocca!

     Così dicendo, la canuta fronte
Prosternò su la polve, e dell’Austero
I sandali abbracciava. Ad una ad una
Cadean su la quíeta anima i detti
Dell’augusta infelice, e un turbamento
Strano su su dai fondi imi salía,
E n’offuscava a poco a poco il volto.
Raddoppiò l’astinenze e le preghiere

Il fluttuante spirito: che nuove
Reti al suo passo il dio geloso ordisca?
Vigile custodì la procellosa
Mente, non forse un Rácsaso omicida
Gli usurpasse nel sonno i regni immensi;
Ma fra le preci della veglia austera
Gli squillava nel cor senza mai posa,
Gli echeggiava ognintorno in suon d’affanno:
Il tuo saper, la tua virtù che giova,
Se gli altrui danni a mitigar non vale?

     E una terra vedea livida, immensa
Brulicante d’umani esseri in pianto.
Non eran quelli i derelitti figli
De la Dolente maestosa? Ignudi,
Maceri procedean sotto a la sferza
Dei nembi; e tutte piaghe avean le membra.
Gemean stridendo da le piaghe orrende
L’anima a stilla a stilla, onde la terra
Pingue ondeggiava di purpurea mèsse.
E in ogni piaga era un vampiro; e dietro
A la caterva estenuata un mostro
Divorava ghignando il gran ricolto.
Rabbrividía l’inclito asceta; ed ecco
Una montagna solitaria in mezzo
Ad un deserto sconfinato; nitido
Sgorga da la sua cima un vitreo fiume,
Che digradando placido, le schiette
Linfe a la sabbia e il suono all’aure sperde.
E dal deserto s’inalzava un grido:
«Il tuo saper, la tua virtù che giova,
Se gli altrui danni a mitigar non vale?»

     Durò molto la pugna, onde fu campo
L’anima pura del Veggente. Alfine
Mutato ei sorse, e con sorriso mesto
E modeste parole all’orba antica
Un suo vittorioso animo espresse:
Teco, o buona, verrò; vedranno i tuoi
Figli l’aspetto mio; la mia parola
Suonerà fra le loro opre servili;
E conforto ne avran. Godano i numi
Quella perfezion vana, a eni tanto
Or or, superbo, io mi tenea da presso:
Ad uom nato mortal, sol fra’ mortali
Pensar, pugnare e dolorar si aspetta!


LE DUE VOCI.


I.


Brulica per la valle orrida a notte
     La querula dei nani orda smarrita,
     E in opere infeconde, in empie lotte,
     Misera più che rea, spreca la vita.

Onde venne! Ove andrà? Qual forza immane
     Qui la domò? Chi del suo mal si piace?
     Chi vieta agli egri corpi il tetto e il pane,
     Al cor l’amore, all’anima la pace?

Ella nol sa: le faticose spalle
     Curva fremendo all’incompreso incarco,
     E tra’ macigni, ond’è chiusa la valle,
     Trovare agogna o aprir di forza un varco.

«Non è questa la via! Non questa è l’opra
     Che disserri a’ nostri occhi il sole e il vero?
     Non può l’ombre fugar che ne stan sopra
     Forza unita di braccia e di pensiero?»

Ed ecco in sen de le crocchianti selve
     (Fu caso o tua virtù, livida greggia?)

     Tra una fuga di fredde ombre e di belve,
     Il gran liberator foco lingueggia.

Ecco, estratta da’ sotterranei chiostri,
     La ferrea forza i polsi all’armi avvezza:
     Se non che, pria di domar monti e mostri,
     Dei discordi fratelli i petti spezza.

E giù da’ rami tenebrosi, a torme,
     Giù da le rupi a’ mal contesi valli
     Piombano congiurate ibride forme
     Tra d’augelli rapaci e di sciacalli.

Suona fremiti e pianti il bujo intenso;
     S’apre l’abisso a un improvviso lume:
     E da’ macigni inespugnati immenso
     Diroccia e ferve rosseggiando un fiume.


II.


Dej salve, nell’erma radura
     Nel torbido cielo invernale,
     Soave lucente figura
     Che tremi librata su l’ale!