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Pagina:Rapisardi - Poemi liriche e traduzioni, Remo Sandron, 1911.djvu/527

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Fáscino il senso del morir vicino!)
In allegre brigate, in rilucenti
Cocchj ondeggiava la città, rapita
Un’ora, forse, alle diurne cure.
Passar la vidi senza alcun rimpianto.
Senza un sospir. Ma quando al sole opposto
La rosea, vaporosa ombra sua vidi
Allungarsi al mio piede, e lentamente
Confondersi con altre ombre è sparire;
Quando pensai che dietro a quella umana
Ombra io sfiorato avea le più superbe
Rose della mia vita, un sentimento,
Non so se d’ira o di pietà, m’invase
Tutto, a un punto; contrassi ad un amaro
Ghigno le labbra, ma fra le contratte
Labbra insieme sentii, non meno amara,
Insinuarsi una cocente stilla.


XV.


     Tutto il giorno ululato ha il temporale;
Ancor brontola il tuono all’aria bruna;
Sorge or la sera, e pallida, spettrale
Guarda su le ribelli ombre la luna.

     Par la terra inondata una laguna
Indefinitamente atra ed uguale,
Da cui lento un vapor torbido sale,
Ma non voce, non suon, non forma alcuna.

     Diffondi, o luna pia, su gl’infecondi
Gorghi il tuo lume; su’ deserti piani
Il tuo placido lume ampio diffondi;

     E tu, vecchio mio cor, mio cor ferito,
Stendi un oblío pietoso, un infinito
Compatimento sugli errori umani!


AMATEA


I.


     La candida Amatea dall’auree trecce
Lasciò l’ermo palagio, e, come apparve
Espero, al Monte de’ Sospiri ascese.
Misera! e non avea da un mese ancora
Libato i baci del regal suo sposo.
Quando in un’alta incantagione attorto
Ei così le parlò: Sposa, a me cara
Più della gloria che bramai già tanto,
Più del saper che ad ogni fonte attinsi,
Più della fede, a le cui nivee mamme
Il dolce latte degl’inganni io bevvi,
Ahi, la pace, la pace, cnde soltanto
Dopo errori si lunghi avido asseto,
Ne’ baci tuoi, nell’amor tuo non trovo!
Chi darmela potrà! Tutte percorsi
Le vaste sedi de’ mortali; ad ogni
Coppa, ov’altri spumar vede il piacere,
Chiesi indarno l’ebbrezza; alla divina
Arte de’ suoni, che in celesti errori
Svaga le menti e la perpetua cura
Che rode il petto de’ pensanti assonna,
Il nepente cercai, l’incantatrice
Aura che plachi la funerea Sfinge:
Misero, e che mi valse? Allor che prima
La tua bellezza agli occhi miei sorrise,
Uno splendore che fluía da l’alto,
Una speranza che salía dal core,
Ecco, mi disse, il tuo conforto è nato!
Chi provò la beata estasi, ond’io
Fui preso allor che per la prima volta
Versai l’anima mia dentro al tuo seno!
Solo quel punto io vissi: or come pria
A me dintorno ombra e deserto è il mondo.
Che più? Mentr’io su la tua bocca ansante
Cercava un di l’inebbríante oblio,
Ecco, al nostro guancial, sovra il tuo capo
Una gran luce a me si aperse, e il suono
Della voce paterna irata intesi:
«Finchè de’ sensi tuoi, de’ tuoi pensieri.
Dell’opre tue segno farai te stesso,
Come belva ferita, in cieche ambagi
L’anima tua s’aggirerà. Che stai?
Rompi i lacci incantati; esci all’aperto:
Altre fatiche, altro dolor vedrai
Spasimarti dintorno; altre catene
Serrar l’anime a’ vinti. A lor ti accosta;
Interroga l’immensa anima: in essa,
Chiusa ad occhio volgar, vive un’essenza,
Che darà al mondo ed al tuo cor la pace!»

Da quell’istante, o sposa mia (perdona
Se triste è il vero), all’amor tuo non vivo:
Nel petto mio, nel mio cervel gli artigli
Una Chimera fiammeggiante accarna;
E da te lungi, a meditar l’oscura
Sorte dell’uomo, in sua balía mi porta.

     Ella invan pianse; egli partì. Qual terra,
Qual foresta, qual cieco antro l’accolse?
La dolente nol sa; quanti ella visse
Nel dubbioso aspettar secoli o giorni?
L’ignora. Da un pensier lucido e forte
Ispirata a la fin, prese il bordone,
E al sacro Monte de’ Sospiri ascese.


II.


     Per l’alpestre sentier, su per la selva
Di neri ilici opaca e di ginepri,
La derelitta procedea di bianche
Lane ravvolta, e più che da stanchezza,
Vinta e curvata da la vigil cura:
Arco parea di giovinetta luna,
Che tra ciocche di nubi amarantine
Or sì or no da le radure affaccia.
A la vetta pervenne allor che a mezzo
De’ firmamenti era la notte ascesa,
Ed all’affascinato occhio degli astri
Placida il sen misterioso apría.
Abbandonati a la quíete immensa
Vaporavan la dolce anima i fiori:
Pispigliavano l’erbe, ed al passaggio
D’innamorati spiriti anelava
Trepida pe’ silenzj ampj la selva.
A quell’ora, fra quelle ombre a lei sacre,
Nel primo bacio dell’amato sposo
S’era a lei rivelato gran mistero
Della vita; or l’essenza alta, che il sonno
Ha del suo sposo e di sè stessa ucciso,
Alle sacre ombre singhiozzando chiede.
Levò gli occhi piangenti; e grandi e chiare
Sul suo capo mirando arder le sette
Gemme che d’Oríon fregiano il regno:
0 Gigante, implorò, tu che con sette
Anime indaghi il dolor nostro immenso,
Pietà, prego, di noi: tu che di tanti
Tesori abbondi, non avrai nel tuo
Regno l’essenza, onde il mio sposo affanna?

     Aspettando vegliò; pallido e bianco
Il Gigante si fece, e come assorto