Pagina:Rapisardi - Poemi liriche e traduzioni, Remo Sandron, 1911.djvu/533

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Nuotavan gli occhi fra il sorriso e il pianto,
Mentre, agitato da singulti, il niveo
Collo pulsava ed ondeggiava il seno.
Perchè così guardate, ei soggiungea,
Perchè così piangete, occhi soavi?
Placida è la casetta ov’io dimoro:
Odorose corone april vi appende,
E la rallegra degli uccelli il canto.
Ma non canto, non fior, non aura amica
La casa de’ traditi orfani allieta;
Ma vivanda non fuma, e non sorriso
Di domestico lume i passi alletta
Al peregrino meschinel, che il bacio
E il viso e il nome della madre ignora.
Come foglie disperse errano al vento
Gli abbandonati tapinelli, o in cupi
Antri sepolti, ad aspre opere addetti.
Deformati ululando, ascendon l’irto
Calvario de la fame. O derelitti
Fiori, perduti al sole ardente e al nembo.
Da la muta casetta ov’io soggiorno,
Sterpati errare e inaridir vi miro;
O tenerelli cori, io nell’eterna
Vigilia de la morte il grido ascolto
Del dolor vostro immedicato. A loro
Volgi, o madre, lo sguardo; apri su loro
La benefica destra, ed alcun fiore
Su la tetra lor via nutra il tuo pianto!


     Così parlava e dileguava. Un’onda
Melodíosa di siderea luce
Rasserenò dell’egra madre il senno;
Ma non così che d’affannose voci
Talor non suoni il suo campestre asilo.

«Fiore dell’amor mio, fiore cresciuto
     Sul core della Morte, entro un avel,
Fiore che il pianto mio tutto hai bevuto,
     Ed alzi la corolla esile al ciel;

Nella polvere giace or la mia fronte,
     Chiusa è l’anima mia dove sei tu;
Sigillato il conforto ha la sua fonte,
     E le lagrime mie non sgorgan più.

Vivrò come tu vuoi; tutte le vie
     Percorrerò del sagrificio uman:
I bimbi ignoti alla pietà le mie
     Provvide cure ed il mio pane avran.

Ma tristi suoneran le mie parole,
     Ma la preghiera mia vol non avrà:
Carme senz’armonia, fior senza sole
     Il mio conforto al pianto altrui sarà.

Esule da me stessa, i danni miei
     Altrui celando, al bene altrui vivrò,
Ma fin che non mi accogli ove tu sei,
     Un istante di pace io non avrò.»


UN VINTO.


I.


     Apran dinanzi a me di questa orrenda
Muda le porte, io n’uscirò; ma ch’io
Grazia domandi come reo pentito,
Figlia, non lo sperar, nè voler ch’altri,
Commiserando al tuo dolor, la impetri.
Popol che chieda a vincitor superbo
Qual pietà la giustizia, è popol vile;
Al prepotente che ti abbatte, e calca
Su te caduta e disarmata il piede,
Son diritto e ragion favole vane;
E se paura il fa parer benigno,
Voti scrocca ed applausi al vulgo ignaro,
E il suo regno protrae. Non io sotterra
Portar mi voglio un tal rimorso. Amai
Più che me stesso la Giustizia; in campo
Scesi per lei; per lei pugnando caddi;
Il vincitor, di sue fortune indegno,
M’ha sul petto il ginocchio: e che potrei
Dal nemico aspettarmi? Usi il suo dritto
Come un pugnale, e nel mio cor l’affondi:
Risplenderà del sangue mio vermiglia
L’Idea sublime, a cui la vita immiolo;
E tu, dolcezza unica mia, d’un nuovo
Tempo la presagita alba vedrai.


II.


     Non son più solo: un piccioletto ragno
Ha da più giorni il domicilio eletto
Ne la mia cella; e de la ferrea grata
Sceltosi a studio un angoletto estremo,
Sue lievi insidie ad intramar s’è messo.
Ve’ come a un capo dell’argenteo filo,
Che di bocca si trae, celere scende!
Ve’ come il destro giocolier gli stami
Tende a mo’ di raggiera, e di traverso
Sen vien tessendo il luccicante ordito!
Forse le trame imbozzimar, le maglie

Collegar pari il furbacchiotto oblia?
Egli pettine e spola, egli cannello
Corre alácre da questo a quel vivagno:
In concentrici quadri i fili annoda,
Li colpeggia solerte; e poi che assai
Forte alla prova ed all’insidie acconcio
Il frodolente módano gli sembra,
Si agguata a un lembo, e paziente aspetta.
Ecco, un ingenuo moscerino incappa
Entro al pensile inganno, e più stridendo
Districarsi s’ingegna, e più s’impiglia.
Sbuca allora il famelico, e le adunche
Forbicette agitando, in su la trepida
Preda ardito si lancia: in lesti giri
Con velenosa ciurmeria l’allaccia,
Indi con voluttà placida sugge
Del tristerel, che invan si lagna, il sangue.

     Più che i feroci violenti io sempre
Gli astuti insidíosi esseri odiai;
Ma poi che insidia e violenza il regno
Disputarsi del mondo, e da maligne
Arti travolto e da brutali assalti
Sempre, ahi, finora il generoso ho visto,
Men ribrezzo le tue perfide trame,
O piccioletto masnadier, mi fanno,
Cui non odio o livor dell’altrui stato,
Ma universale, necessaria brama
Di nutrimento all’altrui danno incíta.


III.


     Il giovinetto che sepolto in questa
Tomba di vivi, all’antro mio di faccia,
Da sei mesi giacea, stanotte è morto.
Fortunato il direi, se non ch’io sento
La tua voce nell’ombra, Ada mia dolce,
Incorarmi alla vita, e nell’immenso
Baratro aprirmi di speranza un raggio.
Un insueto scalpiccío destommi;