Pagina:Rapisardi - Poemi liriche e traduzioni, Remo Sandron, 1911.djvu/535

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VII.


     Fatto inutile agli altri, a me nojoso
In questa fossa abbandonato io fremo;
Ma se penso che voi, squallide torme
All’officina ed alla gleba addette,
Non avete men triste il covo e il cibo;
Che di voi molti, ad ozíar dannati
Da’ casi avversi o dall’infamia altrui,
Questa mia sorte a invidíar son tràtti,
Più del mio stato non mi lagno: il bieco
Civil congegno abbrividendo osservo;
E dolorando a’ vostri mali, iniqua
Pena la vita e vile il mondo appello.


VIII.


     Questa ch’ora è prigione umida e scura,
Fu già castello baronale: albergo
Già di amori, di fasti e di delitti,
Or di dolori senza nome, anch’esso
L’eterno gioco delle umane sorti
E l’incalzar della grande Ora accusa.

     Come nero fantasma, all’erta cima,
Nel mio notturno immaginar lo vedo
Vigilar con fiammanti occhi la valle,
Nel cui sen vaporoso umili e muti
Perdonsi i tetti de’ vassalli. Ed ecco
Splendono a festa le marmoree sale,
E il fragor delle cene ebbre e de’ balli
All’ombre, al sonno degli oppressi insulta.
Risonate, armonie; danze, volgete:
Il grato regno della notte è vostro!

     Deh, come fuor dall’iridate spume
Di merletti e di veli, e constellate
Di gemmee punte abbarbaglianti, emergono
Rosee spalle, auree trecce, eburnei seni!
Come vibranti all’amoroso invito
Balzan le coppie, e con irresistibile
Lancio al sonoro vortice abbandonansi!
Come le dame a’ cavalieri indomiti
Voluttuosamente si attorcigliano,
Mentre già già le bocche in caldi aneliti
Sfioransi; ed in un brivido, in un’estasi
Di desiderio l’anime si fondono!
Risonate, armonie; danze, volgete:
Il grato regno della notte è vostro!

     Ma già il mattino timidetto affacciasi
D’interromper le vostre alte vigilie.
Date vénia, o felici, al putto ingenuo,
Che aprendo con la man candida l’ètere,
Le sfatte acconciature, i volti pallidi,
Lo ciglia orlate di cerchietti lividi
Ridendo addita, e con frizzante soffio
Smorza i doppieri. Oh come tristi e squallide
Ripetendo si van per entro a’ perfidi
Specchj le vostre or or celesti immagini!
Come languidi i cembali sbadigliano
L’ultime note, mentre a la cinerea
Luce che da’ cristalli umidi infiltrasi,
Per le pareti sonnolente strisciano
Le vostre insaziate ombre volubili!

     Dileguate, notturne ombre: la valle
Tra’ vapori sepolta, ecco, si sveglia;
Ecco, a la squilla mattutina, nu aspro
Popolo armato di campestri ingegni
Torna invitto a la vita; e di feconde
Opere ravvivando i campi altrui,
La mèsse nova e la giustizia affretta.


IX.


     Non caro volto, non parola amica,
Non benigna risposta. E un mese, un anno,
Un secolo che qui m’han seppellito?
Non sorriso di sol, non mutamento
D’aura, non moto di viventi cose,
Ma tacite fantasime perdute
In perpetuo crepuscolo; ma ombre
D’uomini senza nome, senza voce,
Evaníenti in un mistero immenso....
Non è questo un sepolcro? E chi m’ha chiuso
In questa fossa, in questa bara? Aprite
Questa bara; scoprite questa fossa;
Non gettate su me la fredda terra:
Uomini, udite, io non son morto ancora!


X.


     La sventurata che cotanto amai,
Che mi amò tanto, e nella terra or giace,
E questa notte a’ sogni miei venuta.
Sul mio Plutarco io vigilava, ed alti
Conforti a’ mali della vita e nova
Nell’umana virtù fede attingea,
Quand’ella con la man cerea scostando
La grave tenda, la testina bruna
Sporse in silenzio; e del tappeto i fiori
Con la punta de’ piè sfiorando appena,
Da canto a me, come solea, si assise.
lo trasognato la guardavo: ancora
Giovane ell’era, come il dì che sposa
Me la condussi al paesel natío,
Dove mia madre, vecchiarella santa,
Sorridendo e piangendo al sen la strinse;
Bella tuttor come quel dì; soffusa
Di quel candor, di quel pudor che rende
Celestiale una mortal bellezza:
Se non che gli occhi suoi, già chiari tanto,
Or velati apparían di quel sottile
Vapor che il viso de le stelle adombra
Ne’ mattini d’autunno, onde ti pare
Che al destino dell’uom pietose anch’esse
Tutta la notte abbian vegliato e pianto.

     Ammalíato da’ suoi dolci sguardi
La man le presi (oh bianca e fredda mano
Ch’io scaldar co’ miei baci invan provai!)
E, dove, le dicea, dove sei stata
Senza me, si gran tempo, anima cara?
Perchè lasciato hai così presto il frutto
Delle viscere tue? V’è dunque un loco,
In terra o in ciel, dove l’amor si oblía?

     Non dolerti di me, con sospirosa
Voce rispose: ad alte sfere io fui
Lungi da te, malgrado mio, rapita:
Beate sfere a chi la terra oblía,
Esilio a me, che su la terra, in queste
Adorabili mura il cor lasciai!

     Proruppe allora irrefrenato il pianto
Da le mie ciglia: — E qual poter ti vieta
Di restar co’ tuoi cari, ospite santa!
Deh, se di nuovo abbandonar t’è forza
Questo senza di te vedovo nido,
Guidami al dolce loco ove dimori,
Ne l’abisso o nel cielo: anche la nostra
Ada verrà.... Non la destar, con pio
Ammonimento m’interruppe: i sonni
Puri dell’innocenza ella ancor dorme,
E non la svegli di suo padre il pianto!
La cerula stanzetta ove riposa,