Pagina:Rapisardi - Poemi liriche e traduzioni, Remo Sandron, 1911.djvu/544

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     Quando l’ardua beltà, come fugace
     Idol di sogno a lui più volte apparsa,
     Ecco, improvvisa agli occhi suoi risplende.
     Non donna di mortal carne vestita,
     Ma un’anima visibile parea,
     Una di quelle vaghe anime blande,
     Che rapito in ispirito d’amore
     Il Beato di Fiesole pingea.
     Penetrò dolce a lo smarrito in core
     Di quella visíon candida il raggio,
     Qual sorriso d’aurora in fra le rupi
     Di selvose montagne, a un lago in seno.
     O piccioletto lago, impervio, all’ombra
     Di boscaglie deserte or or dormivi,
     Ma desto al bacio dell’aereo lume,
     Tremulo splendi, e come occhio velato
     Di lacrime soavi al ciel ti affisi.
     Splendea così del giovinetto il core.
     Che mai dirle ei potea! Voce mortale
     Turbato l’amorosa estasi avrebbe,
     Che placida fluía da quella vista,
     E in una rete di cerulee fila
     Avvolgea lentamente i suoi pensieri.
     Tacito stette, come fior che al rorido
     Zeäro mattutino ondula e tremola,
     E in un voluttuoso assopimento
     La breve, innamorata anima esala.
     Ma non pria dell’eterea giovinetta
     Balenar vide sotto a le socchiuse
     Ciglia un timido assenso, e d’una rosea
     Luce avvivarsi la verginea gota,
     Passar ne le sue fibre intime un brivido,
     Una fiamma ei sentì, trasfonder quasi
     Una parte di lei dentro al suo petto:
     Si confusero a un tratto in un sol moto,
     In un sol core i due cori; e le ardenti
     Anime, che in un guardo eransi intèse,
     Si uniron su le due bocche in un bacio.


III.


Così, liberi, amanti, in un beato
     Eremo, a un colle in cima, in faccia al mare
     Quattro aprili fiorir videro insieme.
     Ma quando nel villaggio a lor vicino
     Incrudelì col verno aspro la fame,
     L’onesto amor da la pietà fu vinto;
     E di consolatrici opre una gara
     Generosa, incessante in lor si accese.
     Di censi ricco e d’ampie terre egli era;
     Ma il dì che vide per gl’inerti campi
     Derelitta languir l’umana vita,
     Per le squallide vie tender le donne
     Estenuate al passaggier la mano,
     Abbandonata ne le fredde case
     La vecchiaja perir, tremar digiuni
     I fanciulletti e chieder pane indarno,
     De’ suoi piaceri, de la sua ricchezza
     Ebbe il nobile core onta e rimorso.
     E, a voi, disse gemendo, la Natura
     Diede in cura la terra, o pii coloni;
     E voi col ferro adunco il solco aprite,
     Voi la sementa e l’annual fatica
     E la robusta sanità gittate
     Nel seno avaro. Oh tutta alfin sia vostra
     La terra; vostri i sacri ingegni e i frutti
     Ond’or l’ignavia furatrice ingrassa!
     E gl’indugj sprezzando, a’ suoi coloni
     Le sue vigne, i suoi prati equo divise.
     Implacabile allora arse lo sdegno
     De’ grifagni congiunti: e con obliqua
     Pietà ristretti in famigliar congiura.
     (Complici al reo disegno i sacerdoti

     D’Esculapio e d’Astrea) non ebber pace,
     Se non quando il gentil capo interdetto
     Nel tetro asil de la follia fu chiuso.


IV.


— Voi parlate a’ fantasmi!, entrando disse
     Con un sorriso il buon Dottore.
                                                       — Ai saggi,
     Di cui la terra è popolata, il mio
     Detto non volgo più, da quando appresi
     Che saggezza e viltà sono una cosa.

     «O mediocrità d’oro e d’argento,
Venuta in terra a dettar leggi a noi,
Ciurma ambidestra, ossequíoso armento,
Di santi astuti e di legali eroi;

     Tribuni accorti, che giocando al poi,
Cogliete a volo il provvido momento,
Sacciute dame gravide di vento,
Bollati dotti, io non favello a voi.

     Solo, diritto, del mio sangue intriso,
Di me stesso io mi cibo, e all’orizzonte
L’anima mia, di luce avido, affiso.

     Ed ecco su da la caligin folta
Sorge un Gigante, e con benigna fronte
Gli sdegni miei, le mie sparanze ascolta.»
     — Poeta!
                         — Io sento e penso; e al mio pensiero,
     Al mio sentir l’opera e il dir conformo.
     — Fuor della terra e dell’età vivete.
     — Chi l’ora bieca e la rea gente ha in ira,
     A un’altra gente, a un’altra età favella.
     — Il presente è dei forti. Il pensier vostro
     Aquila sia: figga lo sguardo al sole,
     Ma scenda in terra a procacciarsi il vitto.
     — L’avvenire è dei buoni. Io di predaci
     Rostri e di violente ali e d’artigli
     Dalla mite Natura armi non ebbi;
     Io con sottili accorgimenti e frodi
     Legali non foggiai ferri ed ordigni
     A ferir gli altri, a preservar me stesso.
     Precipitai così da l’alto, forse
     Da un’altra sfera, in questa bolgia orrenda;
     Ma l’occhio mio penetra l’ombre, e i raggi
     Del ciel natío placidamente accoglie;
     Geme fra’ ceppi il corpo mio, ma franco
     Sorge il pensiero a le contèse altezze,
     E in un prisma stringendo i raggi sparsi,
     Su le vostre ombre, come un dio, li versa.
     — Nobili sensi, alte parole: il mondo
     Non li ode, e all’oro ed al poter s’inchina.
     — Tal sia; ma ciò che la ragion condanna,
     Presto o tardi cadrà: nome o possanza
     Domani avrà quant’oggi ad essa è vero.
     — Domani, ahimè, chi del domani ha il regno?
     Un perpetuo presente è all’uom la vita.
     — Il momento. ecco il vostro regno; il dorso
     Piegar docile a’ casi, ecco la vostra
     Virtù! La sprezzo; e il sogno radíoso
     Dell’amor sogno in mezzo agli odj: un folle
     Sublime anche il sognò, la cui follia
     Molto, o dottore, a questa mia somiglia
     Su la croce ei morì; più della croce
     Grave è il supplizio a cui dannato io sono.
     — Oh mirabile esempio! In lui s’acqueti
     L’animo esasperato: a lui si volge,
     Sazia del ver, la nova età.
                                                  — Del nome
     Della vittima eccelsa altri si faccia
     Motto in vessillo, e il vulgo ignaro adeschi;