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Così arrivammo a Ninfa, la città magica in rovina perduta nelle paludi, e sepolta colle sue mura, colle sue torri, colle sue chiese, co’ suoi monasteri, colle sue case, tutta quanta nell’edera. Il di lei aspetto è più grazioso d’assai di quello di Pompei; le case della quale sorgono quasi mummie, per metà rovinate, dissotterrate dall’arida cenere volcanica. A Ninfa invece uno si trova quasi in un maro di fiori, ogni muro, ogni parete, ogni chiesa, ogni casa, è meravigliosamente rivestita di edera, e su tutte quelle rovine campeggiano le bellezze inarrivabili della primavera e della natura. Non si può con parole descrivere l’impressione che si prova nell’entrare in quella città tutta di edera, nel girare in quelle strade deserte, fra quelle mura rovinate in quell’oceano di fiori, fra tutte quelle foglie agitate dal vento, dove non si ode altra voce che il gracchiare dei corvi che hanno fissata la loro stanza nelle torri del castello, altro romore che il mormorio delle limpide acque del Ninfao, che lo agitarsi dei giunchi in riva agli stagni, che l’ondeggiare melodioso ed armonico delle canne palustri. Si direbbe che Ninfa pure sia stata come Pompei sepolta da un volcano, ma non già sotto le ceneri bensi sotto i fiori. Tutto il regno di Flora vi ha stabilito la sua sede, e vi celebra le sue feste. Le strade riboccano di fiori; i fiori ingombrano le chiese rovinate, si arrampicano su per le torri, circondano, inquadrano le finestre, chiudono l’adîto alle porte, occupano tutte le case, che si direbbero abitate dagli elfi, dalle fate, dalle ondine, da tutte le più graziose creazioni della mitologia romantica. Si scorgono camomille dorate, malve, narcisi odorosi, cardi calla bianca barba, che devono avere vissuto quivi altra volta quali monaci; candidi gigli i quali in vita devono essere state vergini solitarie e sante; rose selvatiche, allori, lentischi, felci, clematiti, roveti, caprifogli, garofani, fuchsie, mirti, mente edorose, ginestre, e dovunque poi edera lussureggiante la quale si abbarbica a tutte le rovine, scavalca i muri, ricade in festoni; in una parola un vero mare di

F. Gregorovius. Ricordi d’Italia. Vol. II. 5