Pagina:Ricordi storici e pittorici d'Italia.djvu/59

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nominato generalmente, a motivo delle sue sculture, l’arco delle sette lampade, come si legge nel libro delle cose mirabili di Roma. Arcus septem lucernarum, Titi et Vespasiani, ubi est candelabrum Moysi cum arca. Il suo aspetto romano venne però deturbato nel medio evo, imperocchè la possente famiglia dei Frangipani, la quale era padrone del Foro e del Colosseo, lo aveva ridotto a forma ed uso di fortezza, innalzandovi una torre la quale fu denomina Turris Cartularia. Finalmente nel 1821, sotto il pontificato di Pio VII, fu restituito alla sua forma primitiva quale ora si ammira, ultima opera ristaurata fra le più meravigliose antichità di Roma.

Tito però erasi ricusato ad assumere dopo il trionfo il nome di Judaicus, prova evidente del nessun conte in cui teneva gli Ebrei. Tanto desso però quanto Vespasiano tollerarono la loro presenza in Roma, dove erano grandemente cresciuti di numero per la venuta degli schiavi, che furono in parte di poi affrancati. Vespasiano aveva loro concesso il libero esercizio della loro religione, se non che li aveva obbligati pagare a Giove Capitolino il tributo di mezzo siclo per testa, che sborsavano dapprima al tesoro del tempio. Gli Ebrei pagano ancora oggidì il loro tributo di Campidoglio alla Camera Capitolina.

Ai tempi di Domiziano, secondo quanto asserisce Suetonio, questo tributo, Fiscus Judaicus, fu riscosso con il massimo rigore. In allora gli Ebrei abitavano per la maggior parte pubblicamente il Trastevere, ed erano irremissibilmente cacciati dall’imperatore dalle altre parti della città. Desso loro assegnò, con disposizione strana, la valle della ninfa Egeria, per la quale dovettero pagare una pigione. Ne fa menzione Giovenale nella satira terza.

Hic ubi nocturnæ Numæ costituebat amicæ,
Nunc sacri fontis nemus, et delubra locantur
Judæis, quorum cophinus fanunique suppellex
(Ommisi enim populo mercedem pendere iussa est
Arbor et eiectis mendicat silva Camœnis,).