Pagina:Rime (Cavalcanti).djvu/104

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XLII.


l' credo, amor, che 'n fin ch' i' non
     sì che quasi divegna come secco,
     voi non direte: — di costui i' pecco,
     che l'ò tenuto e 'l tengo tanto ad agro.

Ma tutta volta saramento sagro
     vi posso far senza mentir del becco,
     ch'ai dolor mio non è nessun parecco 1
     sì forte '1 sento, 'nd'io già no m'a pagro

Hn che compiuto avrò il vostro grado,
     o che pietà voi averete incontra
     la gran durezza, che mia vita spegna.

Qual d'esti due che brevemente avegna
     darà riposo a lo mi' cor e montra
     ch'a valle è tanto, più non trova grado.


XLIII.


Amico, tu fai mal che ti sconforti
     e ti lamenti sì di starmi servo,
     dicendo ch'i' ti son crudo ed acervo,
     volendoti però gittar tra i morti.

Non pare a me che 'n quella guisa porti
     tua sofferenza, che quel ch'i' conservo
     ti sia donato. Se, corno lo cervo,
     non ti rinnuovi 'n saccienti ed accorti

piaceri, e 'n soferir con be' costumi
     quanto che piacerà a me di darti,
     anch'io conoscerò lo tuo cor dentro.

Che 'n dar gioi' a villan già non mi pentro;
     onde ti pena di cortese farti
     acciò ch'io brevemente ti rallumi. 2

  1. Uguale - Latina: paricilus.
  2. Restituire la vista - ant. franc.: ralumer