Pagina:Rime (Cavalcanti).djvu/173

Da Wikisource.

— 159 —

Ballata.


Vedete ch’io son un che vo piangendo
     e dimostrando ’l giudicio d’amore
     e già non trovo sì pietoso core
     4che, me guardando, una volta sospiri.

Novella doglia m’è nel cor venuta,
     la qual mi fa doler e pianger forte;
     e spesse volte aven, che mi saluta
     tanto di presso l’angosciosa morte,
     9che fa ’n quel punto le persone accorte,

Primari Mart e Ca, quasi uguali tranne nell’ultimo verso, ove Ca porta «bieltà» accettato dal prof. Ercole. Io scelgo, oltre che per la maggiore autorità di Mart riguardo a le ballate, la lezione di questo anche per il significato. Nella ripresa il poeta si lagna di non trovare pietoso core. Ammesso anche che qui si parli di un altro amore, non so intendere che cosa possa voler dire l’interpetrazione dell’Ercole ove la si ponga in relazione con il resto della ballata. L’amore è già disceso nel core; quindi perchè dovrebbe il romore della mente proibire la sovrapposizione di una nuova imagine di donna su l’antica imagine amorosa? e quest’ultimo verso non sembra quel giudicio d’amore del verso 2, per cui il poeta va piangendo senza trovar pietoso core? e perchè gli spiritelli fuggirebbero al suono delle parole proibitrici di un nuovo amore, questi spiritelli ch’erano venuti a difesa del core novellamente amoroso? Essi anzi avrebbero dovuto essere i promotori di questa ribellione interna del poeta, non esserne messi in fuga; ma ben invece dovettero fuggire quando il [giudicio d’amore fu che nel cuore mai si rimirasse pietà. Io interpetro quindi: «Gli spiriti abbandonarono gli occhi quando per la mente passò una voce dicendo: — nel core muore una beltà, guarda che quel core mai non ritrovi pietà. —